lunedì 4 gennaio 2010
Storia di un giornale antimafia
Il 5 gennaio del 1984 moriva a Catania, assassinato in un agguato mafioso, Giuseppe Fava. Quasi sessantenne, Fava era uno scrittore di fama nazionale oltre ad essere principalmente un giornalista e autore di teatro. Da un anno aveva fondato, insieme ad un gruppo di giovani giornalisti suoi soci nella cooperativa Radar, il mensile I Siciliani. Nell’editoriale del primo numero aveva elencato i temi di cui la rivista avrebbe cominciato ad occuparsi: la crescita spaventosa della mafia, il sogno fallito dell’industria, la corruzione politica, l’inquinamento delle coste e la campagna pacifista in risposta allo stanziamento di missili nucleari nelle Basi Nato della regione. I giornalisti, attraverso lo strumento dell’inchiesta, riuscivano così ad approfondire temi e questioni che l’informazione siciliana fino a quel momento non aveva preso in considerazione. Il tutto condito da una cronaca di stampo letterario, il continuo racconto delle storie di vita, un grande laboratorio di scrittura e nuovi linguaggi.
Così quel mensile di approfondimento diventava il manifesto della libertà di stampa in Sicilia: un giornale “senza padroni e né padrini” che si era rivelato un vero e proprio terremoto nel mondo della stagnante informazione regionale siciliana, oltre a diventare una spina nel fianco dei politici collusi e dei mafiosi.
Nel primo numero era presente l’inchiesta probabilmente più importante di tutta la storia de I Siciliani: “I quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa”, un servizio dedicato ai quattro maggiori imprenditori catanesi, Rendo, Graci, Costanzo e Finocchiaro. Di loro aveva parlato il generale dalla Chiesa prima di essere ucciso dalla mafia, rispondendo all’intervista di Giorgio Bocca: “I quattro maggiori imprenditori catanesi oggi lavorano a Palermo - aveva detto dalla Chiesa - lei crede che potrebbero farlo se dietro non ci fosse una nuova mappa del potere mafioso?”.
C’era una nuova mappa del potere mafioso, e I Siciliani, che avevano seguito le cronache di quegli anni, lo avevano capito e ne cominciavano a delineare i contorni. Non fu un caso così scoprire che uno degli imputati dell’omicidio dalla Chiesa era stato proprio Nitto Santapaola, boss in ascesa della mafia catanese, fino all’anno precedente ritenuto un semplice imprenditore rampante, amico delle istituzioni e del mondo degli affari, nonché protettore dei cavalieri del lavoro.
Negli anni de I Siciliani, nella Sicilia scossa dall’“effetto dalla Chiesa”, si scopre così da quel giornale che la mafia a Catania è ben radicata, che il territorio etneo sta diventando di primissimo piano nello scacchiere della criminalità organizzata, rivelandosi centro nevralgico degli equilibri economici di Cosa nostra. Tutto ciò sebbene i catanesi non lo avessero ancora sospettato, tranquillizzati dalle istituzioni e dalla grigia informazione di palazzo che cercavano di minimizzare gli accadimenti in una città investita da una ondata di violenza senza precedenti che aveva fatto meritare il titolo di “città nera” d’Italia.
Catania farà i conti con la mafia proprio il 5 gennaio del 1984, davanti all’omicidio di un intellettuale, di un uomo che era riuscito a parlare davvero alla gente e a proporre strumenti razionali per la lotta alla mafia. Il segnale era chiaro, l’ennesimo giornalista ucciso in Sicilia. Al ricatto mafioso I Siciliani non cederanno, continuando nel proprio lavoro, denunciando con forza le collusioni tra mafia, magistratura e imprenditoria. Essi riusciranno ad essere, per qualche anno, i protagonisti del movimento antimafia siciliano, coagulando intorno a loro la società civile, dopo aver sensibilizzato una nazione intera. Continueranno ad essere così il punto di riferimento, insieme al quotidiano L’ora di Palermo, dell’informazione antimafia, seppur soffrendo parecchi problemi finanziari dovuti al fatto di essere un giornale libero e senza padroni. Questa sarà la causa che ne comporterà chiusure transitorie e purtroppo quella definitiva nel 1996.
Questo lavoro vuole ripercorrere la storia di quegli anni, cercando di ricostruire, attraverso gli avvenimenti di mafia e di antimafia che la Sicilia ha attraversato dagli anni Ottanta fino a metà anni Novanta, un senso di quella vicenda. Attraverso lo specchio del giornale I Siciliani, e il suo stile a metà tra cronaca e letteratura, si racconteranno alcuni profili dei siciliani stessi, quelli potenti e impuniti, i corrotti e i collusi, quelli semplici, gli onesti, i poveri e i disperati. Si approfondirà la figura di Giuseppe Fava, padre della testata, maestro di un giovane gruppo di giornalisti negli anni Ottanta. Conosceremo le storie di giudici che hanno perso la loro vita per lottare contro la mafia, insieme a quelli messi sotto inchiesta per collusione e associazione mafiosa. Parleremo dei politici siciliani, quelli onesti e quelli amici di Cosa nostra e di fatto “terzo livello” della stessa. Poi ancora racconteremo le storie dei giornalisti con la schiena dritta, che con le loro inchieste hanno sancito la loro condanna a morte da parte della mafia, e dei giornalisti di palazzo, creatori di consenso e complici degli equilibri dell’assurdo monopolio dell’informazione siciliana. E ancora le storie dei cavalieri del lavoro, di avvocati, di poliziotti, e di semplici cittadini. I siciliani insomma, nel bene e nel male.
domenica 3 gennaio 2010
La morte addosso
"La causa umana fondamentale della mafia è la miseria senza vie d’uscite, cioè la miseria che riunisce l’ignoranza, la malattia, la superstizione, la sporcizia, la violenza. Anche le cose futili della vita diventano essenziali. In un paese dove ogni individuo maggiorenne ha la possibilità di lavoro ben retribuito, non si troverà mai un uomo disposto ad uccidere per centomila lire o per un milione".
G. Fava, La morte addosso, in Processo alla Sicilia, Catania, Ites, 1967, p. 192
Giuseppe Fava, giornalista e direttore
Per raccontare la storia de I Siciliani è doveroso iniziare parlando di Giuseppe Fava, il giornalista che diede vita alla redazione del giornale. In particolare parleremo degli anni della maturazione del giornalista Fava, attraverso le esperienze da capocronista dell’Espresso sera e da direttore del Giornale del Sud. Tramite questo percorso è possibile capire meglio l’etica professionale di Fava, e il tipo di formazione che egli offre ai giovani giornalisti, alcuni dei quali, conosciuti nei giornali sopraccitati, ritroveremo nell’esperienza de I Siciliani. Inoltre questo excursus è fondamentale per capire il clima dell’informazione a Catania negli anni di piombo della violenza degli scontri tra i clan mafiosi rivali.
Giuseppe Fava nacque a Palazzolo Acreide (SR) il 15 settembre del 1925. Figlio di insegnanti elementari, provenienti da una famiglia di origini contadine, frequentò le scuole a Siracusa. Si trasferì a Catania per studiare Giurisprudenza, dove conseguì la laurea nel 1947. La professione di avvocato però non lo aveva mai entusiasmato, così da subito abbandonò l’esercizio per dedicarsi alle sue tre grandi passioni: teatro, letteratura e giornalismo. Cominciò così a collaborare con alcuni giornali minori catanesi dell’epoca (La campana, Il Giornale dell’Isola, il Corriere di Sicilia, Le ultimissime). Venne abilitato alla professione di giornalista nel 1952. Qualche anno dopo diede inizio a collaborazioni come redattore e inviato speciale con riviste nazionali come La domenica del Corriere e Tempo illustrato. In quest’ultimo pubblicò una intervista al capo mafioso Genco Russo, che possiamo trovare in parte nel volume Processo alla Sicilia.
Il profilo intellettuale di Giuseppe Fava è stato paragonato, durante questi anni, a quello di Pier Paolo Pasolini, per la capacità di utilizzare efficacemente diversi strumenti letterari.
La sua produzione letteraria, giornalistica e artistica risulta vasta, poliedrica e variegata: è il frutto coerente delle sue idee che diventano storie raccontate in teatro, nei romanzi, sulle riviste e nei suoi quadri. Fava dedicò più di trentacinque anni all’esercizio della professione di giornalista, animato dalla convinzione che questo mestiere potesse servire al riscatto culturale della Sicilia e a far capire e risolvere i problemi dei siciliani. Molti dei suoi articoli sono permeati da questa passione civile, soprattutto quando Fava racconta la mafia ai propri lettori. Ci occuperemo più approfonditamente di questi ultimi, degli articoli che probabilmente hanno segnato la sua condanna a morte. Ma è importante sottolineare che la carriera giornalistica di Fava è ricca altresì di numerosissimi articoli di cultura, di inchieste letterarie, di terze pagine e di recensioni cinematografiche.
In questo lavoro prenderemo in esame gli articoli caratterizzati dal profondo sentimento antimafioso e dalla continua denuncia all’impunità dei potenti: “Fava si occupava della sua terra e quindi di mafia. Non come “metafora” astratta, ma come sistema di potere e di relazioni. Lo faceva con lo strumento della cronaca, ma anche in teatro, con le sue acqueforti, nei libri. Senza provincialismo” (Antonio Roccuzzo in M.Finocchiaro (a cura di), La maestra e il diavolo – Atti della giornata studi dedicata a Giuseppe Fava, Catania, Agorà Edizioni, 2002, p.159).
sabato 2 gennaio 2010
Gli anni dell'Espresso sera
Dal 1956 al 1978 Giuseppe Fava collaborò al quotidiano catanese del pomeriggio Espresso Sera, sempre in qualità di capocronista. La testata fu rilevata, intorno agli anni Sessanta, dall’editore Mario Ciancio Sanfilippo. La Sicilia e l’Espresso Sera, dal 1968, ebbero una sede congiunta in un moderno palazzo costruito lungo la circonvallazione di Catania.
Gli anni all’Espresso Sera furono importanti per la maturazione del giornalista Fava. Da capocronista, per anni, si occupò dell’organizzazione delle pagine di cronaca nera, seppur la sua firma comparisse principalmente nelle recensioni cinematografiche e nella terza pagina. Dal 1974, poi, Fava iniziò a scrivere anche articoli di fondo e lettere aperte, spunti e stimoli per un dibattito culturale sull’attualità catanese. Erano gli anni in cui Catania stava mutando vesti. Si era meritata il soprannome di “città nera”, inizialmente per il successo elettorale del MSI, secondo partito catanese dietro la Democrazia Cristiana, poi come città insanguinata dai continui delitti e omicidi, alcuni riconducibili al clima politico di teppismo neofascista, altri, la maggior parte, dovuti agli scontri per regolamenti di conti nella faida criminale tra le famiglie catanesi.
Nelle sue “lettere aperte”, indirizzate a figure delle più importanti istituzioni etnee - sindaci, onorevoli e procuratori - Fava descriveva e analizzava le cronache di una città stravolta dalla violenza, scagliandosi contro l’inerzia del potere, responsabile dello stato di miseria e disperazione che la città attraversava:
Catania in definitiva è una città in cui questa facilità di ricchezza e questa inesorabilità della miseria, questa continua possibilità di imbroglio morale e politica nella conquista della vita, questa continua negazione di ogni diritto o principio di pubblica morale, provoca in migliaia di giovani una irresistibile vocazione alla violenza […]. Ora Catania è questa, sanguinaria, immorale, spietata, ingovernata, una città dove la società attuale, cioè questa interpretazione della democrazia, sta sperimentando tutte le sue infamie ed i suoi inganni, una città che fa paura ed ha paura.
Giuseppe Fava, Cosa accadrà a Catania, Espresso Sera, 29/12/1975
Il 5 aprile del 1976 Fava parlava per la prima volta del cancro che stava ammorbando la città. Non era più semplice delinquenza: sullo sfondo estorsioni, corruzioni, malgoverno. Catania era la città dove:
le piccole orde giovanili, nella impossibilità di continuare nell’assalto alle banche, agli uffici postali, alle gioiellerie, si sono dedicate a una speculazione criminale più oscura, più sordida e più tranquilla, vale a dire l’estorsione ai pubblici esercizi. […] Questo sta accadendo a Catania. E questa è mafia. Qualunque cosa si possa dire, questa è mafia. Poiché la mafia è lotta tra opposti interessi criminali, tesi a saccheggiare gli interessi economici di una città ed a creare un monopolio della violenza e della paura per sottomettere il cittadino.
Non ci sono dubbi per il giornalista, in una città “quasi dissanguata dalla corruzione, paralizzata dalla incapacità politica, ammorbata dalle immondizie, istupidita dalla mancanza di cultura. Bene, ora ha anche un cancro che si chiama mafia!” (Giuseppe Fava, La mafia ha vent’anni, Espresso Sera, 05/04/1976).
Intanto Fava attraversava, sull’altro fronte, uno dei periodi più prolifici della sua produzione: erano gli anni della sua consacrazione letteraria, nei quali firmò opere teatrali come La violenza, Il proboviro, Bello bellissimo e romanzi come Gente di rispetto e Prima che vi uccidano.
Per quanto riguarda il giornalismo cominciò una collaborazione con il quotidiano La Sicilia, per cui scrisse una serie di inchieste giornalistiche per raccontare la sua terra: girando per l’amata isola, Fava affrescava il ritratto di una regione fortemente contradditorio, fatto di bellezze tragiche e di felicità mancate. Un reportage di gusto letterario in cui mette sotto “processo”, cercando colpe e responsabili, la Sicilia tutta. Le inchieste vennero poi pubblicate nel volume Processo alla Sicilia [1967] e riprese come spunto ne I Siciliani [1980], quando ripercorrerà lo stesso itinerario per il “secondo appello”.
Il vecchio direttore di Espresso Sera, Girolamo Damigella, andava in pensione. L’ambiente catanese dava per scontata una direzione Fava, che già dagli anni Settanta si occupava di tutta la gestione operativa ed editoriale del giornale. Le forti resistenze interne impedirono però l’attribuzione del ruolo di direttore a Fava, a cui venne proposto in cambio un periodo di prova a La Sicilia come redattore aggiunto alle province. Dopo questa proposta, probabilmente provocatoria vista la fama nazionale di cui ormai godeva, Fava lasciò Catania ed il giornale con cui per più di venti anni ne aveva seguito la cronaca.
Si trasferì a Roma dove condusse per la RAI la trasmissione radiofonica Voi ed io e dove iniziò a collaborare alla terza pagina del Corriere della Sera. Nel 1980 il film Palermo oder Wolfsburg, del quale Fava aveva realizzato la sceneggiatura, ispirandosi al suo recente romanzo Passione di Michele, vinse l’Orso d’oro al Festival cinematografico di Berlino. Nello stesso anno pubblicò il volume I Siciliani, da cui trasse dei contenuti che vennero utilizzati per una serie di inchieste televisive trasmesse dalla RAI.
venerdì 1 gennaio 2010
Il Giornale del Sud
Nel 1980 gli imprenditori etnei Recca e Lo Turco contattarono personalmente Fava, che ormai si era stabilito a Roma. Avevano un’offerta importante: affidargli la direzione di un nuovo giornale catanese, un quotidiano del mattino che si prefiggeva di mettersi in concorrenza con La Sicilia, presentandosi come una voce indipendente e libera. In realtà l’intenzione politica era ben altra, adesso facilmente intuibile, all’epoca difficilmente decifrabile. I nomi che si celavano dietro la proprietà del nuovo giornale erano quelli del cavaliere del lavoro Gaetano Graci, di due politici, il socialdemocratico Salvatore Lo Turco e il democristiano Giuseppe Aleppo (già assessore all’Agricoltura), e dell’esattore comunale Salvatore Costa.
“I loro nomi, allora, dicevano ben poco […] tipi ambiziosi, astuti, pragmatici. Nient’altro” (C.Fava, La mafia comanda a Catania, p.99). Quel giornale in teoria doveva essere al servizio dell’editore, uno strumento utilizzabile a fini elettorali, visto che all’orizzonte c’erano le elezioni del 1981. Ma non solo, la creazione di quel giornale era una operazione di “riequilibrio” che riguardava la proprietà del sistema informativo etneo. Infatti, tra i potenti cavalieri del lavoro catanesi, l’unico a non avere un organo d’informazione era proprio Gaetano Graci (Rendo allora era proprietario di Telecolor, mentre Costanzo si diceva fosse socio di Mario Ciancio a La Sicilia, oltre ad avere l’emittente Telejonica) [A. Laudani in C.Fava, L’istruttoria, Catania, Fondazione Fava, 2005, p. 47].
Gli editori volevano così comprare la possibilità di poter dire la propria nel “solito” panorama editoriale catanese. “Lo Turco, Graci, Aleppo e Costa erano soltanto gli editori rampanti d’un nuovo quotidiano, ricchi e spregiudicati. Apparentemente inoffensivi” [C.Fava, La mafia comanda...]. Qualche anno più tardi fu proprio la redazione de I Siciliani a far luce sugli affari di quel gruppo di imprenditori: tangenti e collusioni con la mafia erano le principali violazioni. Fu Tony Zermo, giornalista di punta de La Sicilia, a consigliare all’imprenditore Recca di prendere in considerazione la possibilità di affidare la direzione del giornale a Fava [A Laudani in C.Fava, L’istruttoria, p. 47].
Giuseppe Fava fu scelto perché era ritenuto uno dei giornalisti più bravi in circolazione, non possedeva tessere di partito ed aveva il coraggio necessario per iniziare da zero l’esperienza di un nuovo giornale. Fava accettò la direzione, non prima però di aver scritto di propria mano il contratto da stipulare con la proprietà. Claudio Fava a proposito ricorda alcune parole del padre: “se io vengo, se mi chiamano, sanno chi sono e sanno di chiamare un giornalista che farà questo giornale con il massimo grado di libertà. E siccome non mi fido di nessuno, me lo metto per iscritto” [Claudio Fava, intervista]. Aveva preparato di suo pugno un contratto in cui in dieci righe si trattavano gli elementi economici, mentre nelle restanti quattro cartelle erano contenute, con una sorta di editoriale, tutti i suoi diritti di Direttore, le libertà principali e ciò che aveva diritto assoluto di fare in quel giornale, “contratto che onorò, mettendo la proprietà in grande disagio” [Claudio Fava, intervista].
Mise in piedi una redazione giovanissima, chiamando alcuni dei ragazzi arruolati durante l’esperienza de l’Espresso sera. Nessun collega de La Sicilia si offrì di aiutarlo [“Quando nacque questo giornale mio padre pensò subito a qualcuno dei suoi vecchi colleghi de La Sicilia. Li cominciò a chiamare uno ad uno a quei 5 o 6 colleghi, della sua età, a qualche passo dalla pensione. Gli dissero tutti di no”. Claudio Fava, intervista]. L’età media era di ventitre anni, e molti di quei giovani erano alle prime armi. Grazie a quella esperienza giornalistica molti di quei ragazzi impararono il mestiere. Fava li aveva scelti e formati ad uno ad uno. Iniziarono tutti dalla cronaca nera, il genere informativo per cui si contraddistinse il giornale:
Il Giornale del Sud concentrò i suoi sforzi su quello che viene considerato a torto un genere minore: la cronaca nera. Cominciò a raccontare le stragi, gli attentati, gli omicidi e tutta la violenza che flagellava Catania al ritmo di un morto ammazzato al giorno, facendo per la prima volta nomi e cognomi dei capiclan. Il Giornale del Sud non scriveva che la vittima era stata uccisa per una guerra tra clan rivali, scriveva che un commando di Santapaola aveva ammazzato un killer del clan Ferlito.
Sebastiano Messina in M.Finocchiaro (a cura di), La maestra e il diavolo, p. 51
I giornalisti del Giornale del Sud furono i primi a parlare di mafia, scrivendo con “nomi e cognomi: la mappa delle famiglie vincenti, la loro consistenza “militare”, le rotte dei loro traffici, le contiguità politiche” [C.Fava, La mafia comanda...].
Il primo numero uscì il 4 giugno del 1980. Fava nell’editoriale parlava dei tre principi che avrebbe seguito nella conduzione del quotidiano: “tutti i giornali che vengono alla vita, nel primo giorno di pubblicazione, affermano sempre assolutamente tre parole. Tre principi: popolo, giustizia, verità!”.
Soprattutto la verità, che “non è quella che arriva ai giornali attraverso i comunicati ufficiali, le conferenze stampa, i discorsi del potere, i mattinali della questura, i bilanci della società, le sentenze dei magistrati, ma quasi sempre un’altra più segreta e difficile, nascosta fra le cento pieghe ostili della società, camuffata in mille modi, deformata da una infinità di interessi, menzogne, corruzioni. La verità non arriva mai con le sue gambe sui tavoli di un giornale, ma bisogna andarla a cercare dovunque, scovarla dove essa sia e dove l’hanno intanata, riconoscerla perfettamente per raccontarla nella sua vera identità”.
Noi viviamo in un paese sporcato dal sangue – continuava Fava – dalla imbecillità, dalla vanità e dalla violenza del potere. […] c’è la strafottenza politica di noi siciliani, popolo, siciliano intendo, cinque milioni di esseri umani che continuano a delegare il loro destino ai meno capaci. Cioè cinque milioni di esseri umani intelligenti i quali potrebbero essere al centro della civiltà mediterranea e non riescono a organizzare il loro destino.
Ecco, noi siamo giornale del Sud per questo; per dare ai siciliani quella presenza politica e culturale che aspettavamo. Diciamo politica poiché tutti i problemi della società, la giustizia, la violenza, l’economia, la morale, costituiscono politica. E diciamo cultura poiché noi vi racconteremo tutto quello che accade, nella attualità dell’Italia e dell’estero, nella cronaca di Catania e delle altre città siciliane, nell’arte, nello spettacolo, nello sport, e di ogni cosa che accade cercheremo sempre, onestamente e profondamente di capire il come e il perché. Questa è cultura. Ecco appunto, noi vogliamo lottare ogni giorno (e non c’è alcuna retorica in questa parola, ma solo collera, amore e orgoglio) per organizzare il destino di noi siciliani.
Giuseppe Fava, Con amore collera e speranza, Giornale del Sud, 04/06/1980
Lo strumento alla ricerca della verità era quel tabloid di trentadue pagine - divise tra nazionali, esteri, sport e cultura - piene zeppe di vita della città: di cronaca, degli affari della mafia, dell’impunità e della cattiva gestione del potere politico, del fallimento delle opere pubbliche, dell’inquinamento del mare siciliano.
Il contrasto con gli editori si palesò molto presto. Inizialmente fu il cavaliere Graci ad intervenire personalmente, venendo allo scoperto, in seguito delegò il proprio avvocato Alfio Tirrò allo svolgimento di un lavoro di controllo, con funzioni censorie, di tutti gli articoli prima della loro pubblicazione. Erano sotto accusa non solo gli articoli che andavano “contro la proprietà” ma soprattutto quelli che riguardavano Cosa nostra catanese, nella figura del capo indiscusso Benedetto Santapaola, che un giorno si presentò personalmente nell’ufficio del cavaliere, con cui già andava a caccia [A.Laudani in L’istruttoria, p. 48]. Furono diverse le occasioni di scontro con la proprietà del giornale, che addirittura tentò di imporre alla direzione il licenziamento della giornalista Giovanna Quasimodo, autrice di inchieste sull’irregolarità dell’amministrazione comunale [Riccardo Orioles, interv., in L.Mirone, Gli insabbiati, p. 180].
Chi ha detto che a Catania non c’è mafia?
Nessuno era ancora convinto, guardando al degrado e alla violenza della città, che si potesse affermare che a Catania ci fosse una mafia, solida e radicata, che si stava sviluppando davanti agli occhi inerti dell’opinione pubblica e davanti all’impotenza dello Stato. Il Giornale del Sud ogni giorno pubblicava molti servizi sui morti ammazzati, cominciando timidamente a delineare la mappa degli interessi mafiosi e delle famiglie vincenti. Ma c’era da sensibilizzare anche la gente comune che pensava che la mafia fosse una malattia che attanagliava solo Palermo e che non coinvolgeva altre realtà isolane:
Da sempre si suole dire che la Sicilia orientale è immune dalla mafia e che questo tragico fenomeno devasta soltanto la vita sociale nell’occidente dell’isola. Cioè come se esistesse, a metà della Sicilia, una specie di immaginaria linea di confine: da una parte stanno i buoni e dall’altra i sanguinari. Palermo, imponente e sonnolenta sarebbe la sovrana della Sicilia terribile, Catania ironica e laboriosa la capitale della Sicilia mansueta. Praticamente si verrebbe a determinare questo incredibile fenomeno storico: che la mafia, capace di stravolgere le grandi città del mondo da New York a Milano, da Los Angeles a Marsiglia e Napoli, arrivata sulla sponda sassosa del fiume Imera, lungo la vallata fra Caltanissetta ed Enna, si ferma.
Fava continuava illustrando le caratteristiche della mafia moderna, tre componenti precise, riscontrabili anche nella Sicilia orientale:
Primo l’appropriazione con la violenza, se necessario con la morte del concorrente di una ricchezza (appalti, commerci, mercati) e quindi la costituzione di un diritto negato dalla legge. Secondo la impotenza dello Stato e quindi dei suoi strumenti civili, magistrati, polizia, parlamento, a imporre il suo diritto, che è la legge di tutti i cittadini. Terzo, infine, la rassegnazione degli stessi cittadini alla impotenza dello Stato e alla incontrastata potenza dei violenti. […] A Catania e nella provincia di Catania gli assassini si susseguono con una costanza allucinate, e non c’è mai una componente sentimentale all’antica, la gelosia, la sfida malandrina, la ragion d’onore. […] L’industria che vanta a Catania il più alto fatturato è certamente quello delle estorsioni: migliaia di commercianti, negozianti, operatori economici o di mercato, appaltatori, pagano mensilmente un prezzo alla criminalità per non essere assaltati. […] Non è stato scoperto mai l’autore di un solo assassinio, e gli operatori economici continuano a pagare […] potranno magari frodare cento volte il fisco, ma non sgarrano un giorno a pagare il pizzo. Così l’economia catanese sta morendo. Una delle ragioni, forse quella essenziale per cui tutta Catania sta morendo. Le componenti ci sono tutte: l’appropriazione violenta del diritto alla ricchezza, la totale impotenza dello Stato a fare giustizia, la rassegnazione vile del cittadino.
Giuseppe Fava, Chi ha detto che a Catania non c’è mafia?, Giornale del Sud, 23/08/80
L’attentato
La notte tra il 18 e il 19 gennaio del 1981 la redazione subì un attentato intimidatorio. Una bomba carta era stata posta davanti l’ingresso secondario del giornale, nell’unico giorno in cui il Giornale del Sud non lavorava. Un segnale intimidatorio preciso. Queste furono le parole di Fava il giorno seguente:
Un attentato è stato compiuto la sera di domenica contro il nostro giornale: una potente carica esplosiva ha divelto la pesante saracinesca di uno degli ingressi, devastando il locale adiacente, fracassando le grandi vetrate e danneggiando due auto in sosta. Nessuno – sia esso mercante politico, operante di malaffare o criminale – ha rivendicato l’ignobile gesto. In realtà coloro i quali hanno compiuto questi atto di violenza, hanno sbagliato tutto. Non hanno cioè capito che il Giornale del Sud è nato anzitutto per dire la verità, la onesta limpida verità su tutto e tutti, su qualsiasi problema, fatto, evento, in modo che i siciliani possano essere sempre informati sulla società dentro la quale vivono e quindi operare in coscienza le loro scelte. E in questa società siciliana, spesso maltrattata e offesa da una informazione parziale o interessata, il Giornale del Sud – ben al di là di suoi eventuali meriti di stile e di cultura – rappresenta questa voce assolutamente onesta, assolutamente indipendente da qualsiasi potere e intende, ogni giorno, battersi per tre principi fondamentali: la verità, la libertà e la giustizia. Lo abbiamo scritto sulla prima pagina del nostro primo numero e possiamo confermarlo, senza retorica ma con decisione morale. Non ci sarà attentato o violenza che potrà per un attimo fermare il Giornale del Sud. Dentro il quale lavorano uomini i quali (tutti) di questi principi hanno fatto una idea della vita.
Giuseppe Fava, Attentato al nostro giornale, Giornale del Sud, 20/01/81
Quella che all’inizio sembrava una battuta (“secondo me la bomba se la sono messi loro stessi perché ormai si spaventavano del loro stesso giornale”) fu confermata molti anni dopo dalle dichiarazioni di alcuni pentiti che confermarono che i mandanti dell’attentato erano stati gli stessi editori [Michele Gambino, Nel nome di Graci, I Siciliani Nuovi, Giugno 1994].
Gli euromissili a Comiso
Nell’agosto del 1981 Fava pubblicò una serie di editoriali ed articoli contro la decisione del governo di installare dei missili americani nella Base Nato di Comiso, paese in provincia di Ragusa.
La posizione del Giornale del Sud era stata netta e chiara: “No ai missili atomici” aveva titolato il giornale di Fava, schierandosi a favore del movimento pacifista e ribadendo il chiaro rifiuto ai cruise americani. Questa dichiarazione contrastava con gli interessi della proprietà, a tal punto che venne fatto recapitare a Fava un telegramma nel quale gli si ricordava che il giornale si muoveva nell’ambito del Patto atlantico. La tensione fra la proprietà e la direzione in quel momento fu altissima: una delle prime mosse architettate da parte degli editori al fine di “addomesticare” la redazione fu quella di affiancare a Fava il giornalista Umberto Bassi come vicedirettore.
Il caso Ferlito
Catania intanto diventava sempre più centrale nello scacchiere del traffico di droga internazionale. “La via dell’eroina ora passa da Catania […]. La malavita catanese nel traffico ormai c’è da più di due anni”, erano state le parole di Riccardo Orioles, cronista del Giornale del Sud, che in quel periodo si stava occupando di un’inchiesta atta a tracciare le rotte mondiali della droga, collegate allo spaccio di eroina e cocaina nella città etnea, controllato da alcune famiglie mafiose catanesi (i Cutaja, gli Ercolano e i Ferrera, tutte famiglie collegate al boss Santapaola) [L.Mirone, Gli insabbiati, p. 181].
Verso la fine di settembre del 1981 Alfio Ferlito, boss della famiglia rivale ai Santapaola, era stato arrestato alla periferia di Milano con un camion carico di droga. Il Giornale del Sud dedicò all’avvenimento un largo e dettagliato spazio nella cronaca: la storia del boss Ferlito, i rapporti d’inimicizia con il clan Santapaola, il tutto sottolineando la parentela con l’assessore ai Lavori pubblici del comune di Catania. Ricorda il giornalista Antonio Roccuzzo che, poichè nella vicenda era coinvolto un noto mafioso il cui cugino era un assessore al comune etneo, “la Catania che contava faceva il giro delle redazioni per far cancellare la cronaca dai giornali: e ci riusciva” [Antonio Roccuzzo in M.Finocchiaro (a cura di), La maestra e il diavolo, p. 161]. Proprio quel giorno il direttore Giuseppe Fava si trovava a Roma. Il servizio, preparato dai giornalisti Claudio Fava e Riccardo Orioles, venne fermato sui tavoli del vice Bassi. L’articolo fu ridimensionato e “corretto” da Tirrò, l’avvocato di Graci, sotto l'assenso del vicedirettore.
Claudio Fava ricorda a proposito che spesso la proprietà, dopo avergli affiancato il vice, approfittava delle assenze del direttore per censurare alcuni articoli.
Il licenziamento e l’occupazione
Poco più di una settimana dopo arrivò per Giuseppe Fava il telegramma di licenziamento. Il motivo principale per cui Fava veniva congedato era che aveva ridotto in deficit i conti del giornale. Non era un motivo accettabile per i redattori che, essendo a conoscenza dei precedenti attriti con la proprietà, scelsero democraticamente di occupare per protesta la sede del giornale per cinque giorni. L’occupazione finì il sesto giorno dopo l’intervento pacificatore del sindacato, che spiegò ai redattori che il direttore era stato licenziato per una giusta causa. Le proteste dei giornalisti non vennero ascoltate, avallando così la nomina a direttore del vice Bassi. Giuseppe Fava così lasciava la direzione del giornale, appena dopo aver affermato il suo manifesto intellettuale di giornalista, nello spazio delle lettere al direttore:
Io ho un concetto etico del giornalismo. Ritengo infatti che in una società democratica e libera quale dovrebbe essere quella italiana, il giornalismo rappresenti la forza essenziale della società. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza la criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, tiene continuamente allerta le forze dell’ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo. Se un giornale non è capace di questo, si fa carico anche di vite umane. Persone uccise in sparatorie che si sarebbero potute evitare se la pubblica verità avesse ricacciato indietro i criminali: ragazzi stroncati da overdose di droga che non sarebbe mai arrivata nelle loro mani se la pubblica verità avesse denunciato l’infame mercato, ammalati che non sarebbero periti se la pubblica verità avesse reso più tempestivo il loro ricovero. Un giornalista incapace - per vigliaccheria o calcolo - della verità si porta sulla coscienza tutti i dolori umani che avrebbe potuto evitare, e le sofferenze. le sopraffazioni. le corruzioni, le violenze che non è stato capace di combattere. Il suo stesso fallimento!.
Giuseppe Fava in Rubrica delle lettere, Giornale del sud, 11/10/1981
Il giorno dopo Fava si congedava dai suoi lettori, con un articolo intitolato “Una lotta civile”, raccontando la sua esperienza alla direzione del giornale e descrivendo lo stato attuale del quotidiano:
Esattamente nel gennaio 1980 un gruppo di imprenditori catanesi, che non conoscevo personalmente, ma che mi offrirono tutte le garanzie morali e professionali, mi invitò a dirigere un nuovo giornale a Catania, il Giornale del Sud che doveva rappresentare la voce di una generazione nuova e intraprendente di siciliani. Io avevo lavorato per quasi trent’anni in giornalismo, in tutti i settori, avevo scritto centinaia di articoli, inchieste, servizi. Trent’anni sono tanti, metà della vita, e io li avevo spesi appassionatamente in una professione che, prima d’essere lavoro, è arte di vivere. […] In questo anno e mezzo la consistenza dell’azienda editoriale […] si è però modificata. L’intenzione civile e la posizione politica sono diverse, rispetto a quelle che erano al momento in cui accettai di creare questo nuovo giornale. E dunque, per rispetto verso l’azienda, verso me stesso, e soprattutto verso i siciliani, me ne vado! Bisogna anche dire che, tenuto conto della inconciliabilità delle rispettive posizioni etiche (la concezione stessa del valore e della funzione di un giornale nella società) e politiche (l’azienda aveva da sostenere interessi politici che io respingevo) l’editore mi ha anche civilmente proposto di rassegnare le mie dimissioni, concordando una formula che fosse la più amabile possibile, come è nella tradizione borghese del giornalismo italiano. Ho rifiutato perché fosse chiaro dinnanzi a tutti che non abbandonavo il posto di lotta e che fino all’ultimo avevo tenuto fede ai miei impegni civili verso i compagni di lavoro e verso i cittadini
Lascio un giornale perfettamente vivo e valido, creato dal niente e tuttavia in sicura espansione, con una redazione di giovani avviati alla professione […]. Li considero l’opera più bella della mia vita di giornalista. Auguro loro di non tradirsi mai e di poterli incontrare ancora [Giuseppe Fava, Una lotta civile, Giornale del sud, 12/10/1981].
Il nucleo storico de I Siciliani nacque quel giorno, “una dozzina di ragazzi in tutto: per un’avventura del destino e per merito del loro direttore, quel gruppo umano aveva imparato più rapidamente d’ogni altro cos’era diventata Catania. […] Nell’autunno del 1981, quei ragazzi rappresentavano per la città il primo autentico movimento d’opinione antimafioso” [C.Fava, La mafia comanda...].
giovedì 31 dicembre 2009
Non scriveva per placare, tanto meno per assolvere, bensì per agitare
Aveva il gusto (non l’ostentazione) della cultura e della condizione contadina da cui proveniva, pure egli praticando la modernità e il dinamismo del cittadino e del cosmopolita. Guardava l’Europa e il mondo, ma avendo scelto come prospettiva privilegiata la Sicilia. Il suo era uno sguardo che proprio perché tendeva a proiettare la Sicilia nell’Europa, per ciò stesso si identificava con il punto di vista della Sicilia. Aveva una visione apocalittica e una predilezione per la lotta. Non scriveva per placare, tanto meno per assolvere, bensì per agitare. Il suo modo di scrivere era conseguente al suo essere. Era il suo modo d’essere. La scrittura era perciò imputatoria e blasfema. Nessuna finalità catartica né il giuoco estetico l’animava. Lo scrivere insomma faceva parte del lavoro di Giuseppe Fava, del suo diverso impegno umano e civile. Romanzo, teatro, cronaca o inchiesta giornalistica, non venivano di volta in volta scelti per una preferenza di generi, ma essenzialmente relativamente all’efficacia, e relativamente ai destinatari. Il romanzo, per Fava, non era che cronaca ma per destinatari i quali non erano in grado di avvertire la immediata tragicità che balza alla cronaca.
Sebastiano Addamo, I Siciliani, Gennaio 1984
mercoledì 30 dicembre 2009
I Siciliani perché?
“I Siciliani vengono avanti nel grande spazio della informazione e della cultura, nel momento preciso in cui il problema del Meridione è diventato finalmente, anzi storicamente, il problema dell’intera Nazione”. Era il 15 dicembre del 1982. Con questo editoriale il direttore Giuseppe Fava inaugurava la nuova rivista I Siciliani, fondata ed edita tramite la cooperativa Radar, un soggetto creato l’anno prima insieme ai giovani giornalisti che componevano con lui la redazione del giornale.
In queste righe c’è la dichiarazione di intenti del gruppo, il manifesto che li accompagnerà nella loro lunga storia. C’è un problema di tutti: si chiama mafia. In uno “spaventoso lampo di violenza” mafiosa, in meno di due anni, erano stati uccisi rapidamente “uomini al vertice della società”. Dalla fine degli anni Settanta la mafia era uscita allo scoperto, colpendo sempre più in alto, tutti gli uomini che ostacolavano gli affari di Cosa nostra: gli ultimi in ordine di tempo erano stati Piersanti Mattarella, presidente della Regione Sicilia (ucciso il 6-1-80), Gaetano Costa, procuratore capo di Palermo (6-8-80), Pio La Torre, segretario del PCI siciliano (30-4-82), e Carlo Alberto dalla Chiesa, generale dei carabinieri, nominato Prefetto di Palermo il giorno dopo l’agguato a La Torre (ucciso in via Carini il 3-9-82).
Inizialmente alla guida del Giornale del Sud, quotidiano catanese nato nel 1980, Fava e i suoi ragazzi non avevano mai smesso di parlare di mafia, di collegare gli omicidi, di delineare la nuova geografia criminale. In una Italia dove nessuno voleva parlare di mafia, c’era anche una Catania dove in quegli anni si diceva ci fosse solo spicciola delinquenza. Non era questa l’idea de I Siciliani; erano sicuri dell’esistenza della mafia e per questo si erano ritagliati uno spazio editoriale nuovo, a proprie spese, una voce libera in un monopolio informativo compatto. Per la redazione del giornale i fatti parlavano chiaramente: Catania stava diventando fondamentale nella nuova geografia mafiosa.
“La mafia è dovunque – continuava Fava nell’editoriale – in tutta la società italiana, a Palermo e Catania, come Milano, Napoli o Roma, annidata in tutte le strutture come un inguaribile cancro, per cui l’ordine di uccidere dalla Chiesa può essere partito da un piccolo bunker mafioso di Catania, o da una delle imperscrutabili stanze politiche della capitale”. Il direttore proseguiva elencando altri problemi immensi, considerati per decenni “tragedie meridionali, cioè, secolari, inamovibili, distaccate dal corpo vivo della Nazione” che invece appartengono a tutti gli italiani, “costretti a sopportarne il danno, spesso il dolore, talvolta la disperazione”. Sono i problemi della Sicilia dell’inizio degli anni Ottanta: Priolo, uno splendido paese siracusano che si affaccia sul mare, di colpo diventato polo industriale e petrolchimico, ora devastato dall’inquinamento; Comiso, paesino del ragusano, scelto come parcheggio di testate atomiche statunitensi pronte ad essere lanciate in qualsiasi momento; poi ancora la camorra, “subalterna e alleata della mafia”, e l’emigrazione meridionale al nord, dapprima “speculazione del grande capitale sulla povertà e ignoranza” e ora nei giorni di recessione trasformata in “piaga sanguinosa che assedia le grandi città settentrionali”. Niente era di interesse regionale, secondo I Siciliani: “Tutto quello che accade a Milano, Roma, Venezia, Torino, nel bene e nel male, appartiene anche ai meridionali, ai siciliani. Quello che accade nel Meridione e in Sicilia, il bene e il male, la paura, il dolore, la povertà, la violenza, la bellezza, la cultura, la speranza, i sogni, appartiene a tutta la nazione”.
Questo fu l’atto di nascita del giornale; una rivista che voleva conoscere e far conoscere i problemi che affliggevano la Nazione, tutta. Per farlo si servì dello strumento più importante del giornalista: l’inchiesta. Fava e i suoi carusi, formati da lui personalmente negli anni precedenti attraverso esperienze in varie testate, erano pronti e iniziavano con quel manifesto una nuova esperienza.
“I Siciliani giornale di inchieste in tutti i campi della società: politica, attualità, sport, spettacolo, costume, arte […]. Un giornale che ogni mese sarà anche un libro da custodire. Libro della storia che noi viviamo. Scritto giorno per giorno”.
Il mensile arrivò in edicola alla vigilia di Natale del 1982, e nel giro di pochi giorni andarono esaurite le tremila copie di quel primo numero. Saranno indispensabili altre due ristampe che porteranno la data di Gennaio 1983, per un totale di diecimila copie vendute per l’esordio. Il successo non fu solo nelle vendite. La Sicilia ebbe finalmente una voce d’informazione in più. Una rivista cartonata di centosessanta pagine, diventate in seguito duecento, che parlavano di mafia, di questione meridionale, di cultura e costume. Una voce corretta, onesta e responsabile, senza padroni né padrini, il cui unico scopo fu quello di essere uno strumento di impegno civile per tutto il Paese, cercando e dicendo la verità.
martedì 29 dicembre 2009
Giornalista in Sicilia, un mestiere difficile
“La Sicilia è la regione d’Europa con la più densa storia di giornalismo militante e civile: ben otto giornalisti sono stati uccisi qui nell’esercizio del loro mestiere. Contemporaneamente, la Sicilia è la regione in cui l’informazione ufficiale è meno pluralista e articolata: da ben prima di Berlusconi, qui, i media sono soggetti a un monopolio (Ciancio e soci) sempre più pervasivo e assoluto”.
Riccardo Orioles
Tra il 1960 e il 1993 in Sicilia sono stati uccisi otto giornalisti nell’esercizio del proprio lavoro. Otto uomini, otto storie cittadine e di provincia, di professionisti assassinati, sequestrati, alcuni “suicidati” per inganno. È la storia di un’altra stampa in Sicilia, una scuola di un grande giornalismo antimafia e d’inchiesta. Uomini caduti nella quotidiana lotta al sistema mafioso, giornalisti militanti che, assumendosi le proprie responsabilità, vedevano nell’esercizio della professione un unico scopo, politico e sociale, incrinare il sistema mafioso, per rendere possibile un cambiamento culturale, per svegliare le coscienze assopite, per uscire da una subalternità secolare.
Tutti i giornalisti uccisi si sono contraddistinti per le loro inchieste sui poteri mafiosi; inchieste che difficilmente avevano spazio nell’informazione ufficiale. Due giornali principalmente, L’Ora e I Siciliani, ospitavano questi servizi giornalistici; dopo il 1996 nessuna di queste due testate è riuscita a sopravvivere nel panorama editoriale siciliano. Dietro ogni morto lo stesso meccanismo: la delegittimazione, i depistaggi, le calunnie. Solo dopo decenni è stato possibile accertare alcune responsabilità, sebbene per alcuni di questi morti ancora non si conoscano i mandanti e gli esecutori. “Una coincidenza? O la dimostrazione di trovarsi in una regione, in uno Stato a democrazia limitata, dove la libertà di informazione è stata sempre mal tollerata?” [Luciano Mirone, Gli insabbiati, Roma, Castelvecchi, 1999, p. 7]
Cosimo Cristina
Corrispondente da Termini Imerese (PA) del quotidiano palermitano L’Ora. Collaboratore dell’Ansa, del Corriere della Sera e del Giorno. Cinque mesi prima della morte aveva fondato e diretto, insieme al collega Giovanni Capuzzo, il periodico Prospettive Siciliane. Con questo editoriale aveva inaugurato il nuovo giornale:
“Con spirito di assoluta obiettività, in piena indipendenza da partiti e uomini politici, ci proponiamo di trattare e discutere tutti i problemi interessanti la nostra Isola, avendo come nostro motto: “Senza peli sulla lingua”. E poiché riteniamo che premessa indispensabile per ogni opera di rinnovamento sia la moralizzazione, denunzieremo quindi ogni violazione ai principi di onestà amministrativa e politica, sicuri anche in questo di interpretare i sentimenti e le aspettative di un popolo di antica saggezza” [Prospettive siciliane, dicembre 1959 cit. in L. Mirone, Gli insabbiati].
Dalle colonne del nuovo periodico Cristina aveva riaperto il caso Tripi, l’uccisione nel 1957 di un personaggio della malavita di Termini Imerese, e aveva scoperto importanti retroscena riguardo sia al suddetto delitto che sui collegamenti ad una serie di omicidi avvenuti nella stessa zona. Cristina fu ritrovato morto il 5 maggio del 1960 lungo i binari della ferrovia. Il caso venne archiviato dai magistrati come suicidio. Non venne ordinata un’autopsia e non gli venne celebrato il funerale. Anni dopo il questore Mangano riaprì le indagini sostenendo la tesi dell’omicidio di mafia.
Mauro De Mauro
Uno dei più importanti giornalisti d’inchiesta de L’Ora e tra i più bravi cronisti d’investigazione della storia del giornalismo italiano. Giornalista poliedrico: scrive di cronaca giudiziaria, di cronaca nera, di società e nell’ultimo periodo anche di sport. Insieme a Felice Chilanti scrive il “Rapporto sulla Mafia” del 1963. Nel 1967 invece firma “Tutti gli uomini della droga”, inchiesta d’impianto investigativo. Il 16 settembre del 1970 viene sequestrato. Il suo corpo non sarà più ritrovato. De Mauro era considerato uno che sapeva troppo; prima di essere rapito stava lavorando ad alcune inchieste importanti, ed in questi lavori andava ricercato il movente della sua morte. Le piste più battute furono quelle relative al traffico di droga e quelle riguardanti il lavoro di ricostruzione degli ultimi giorni di Enrico Mattei in Sicilia (commissionatogli dal regista Francesco Rosi). Nel 2005 il tribunale di Palermo chiuse l’inchiesta, risolvendo così anche un mistero durato 35 anni. L’uccisione di De Mauro fu commissionata dal clan dei corleonesi poiché il giornalista era venuto a conoscenza dei sostegni armati che la mafia aveva offerto a Borghese, ex comandante della X-Mas, per il suo progetto di colpo di Stato.
Giovanni Spampinato
Giornalista corrispondente da Ragusa per L’Ora, fondò L’Opposizione di sinistra, un quindicinale che nasceva come “strumento di informazione, o di controinformazione, indispensabile dato l’assoluto, incontrastato monopolio a livello locale della stampa borghese mistificatrice, asservita a precisi interessi di classe e di gruppi di potere” [L’Opposizione di Sinistra, 1969 cit. in L. Mirone, Gli insabbiati].
Fu uno dei primi giornalisti a scoprire l’esistenza di “Gladio”, l’intreccio di neofascismo e servizi segreti che aveva il fine di evitare l’ingresso del PCI nel governo italiano. Attraverso inchieste sulla mafia ragusana e varie indagini sui referenti siciliani di Borghese, Spampinato era venuto a conoscenza della presenza a Ragusa di Stefano Dalle Chiaie, uno degli artefici della “strategia della tensione”. Venne ucciso nel 1972 dal figlio di un magistrato di Ragusa, vicino ad ambienti neofascisti e coinvolto nell’omicidio di un antiquario.
Peppino Impastato
Da Radio Aut, una radio privata creata con i ragazzi del paese, denunciava le collusioni tra politica e mafia attraverso gli attacchi a Gaetano Badalamenti, boss di Cinisi, organizzatore del traffico d’armi e droga tra la Sicilia e gli Stati Uniti. Fu trovato morto il 9 maggio 1978, smembrato dall’esplosivo, lungo i binari che collegano Palermo a Trapani. Per tanti anni esso fu ritenuto un suicidio, essendosi sparsa la voce che era rimasto vittima dell’attentato terroristico che lui stesso stava costruendo. In seguito arrivò l’attestazione che si era trattato di un omicidio di mafia.
Mario Francese
Cronista giudiziario del Giornale di Sicilia, ucciso da Leoluca Bagarella nel gennaio del 1979. Nato in provincia di Siracusa, comincia, fin dagli inizi della propria carriera, a seguire i processi di mafia celebrati a Palermo. Diventa un grandissimo conoscitore della mafia palermitana, assistendo alle udienze più importanti: la strage di viale Lazio, il delitto Tandoj, le udienze di Luciano Liggio. La vicinanza con la città e la frequentazione dei quartieri popolari permettono al giornalista di costruirsi una fitta rete di informatori che lo aiuteranno a capire perfettamente gli interessi economici della mafia degli anni Settanta.
Nel 1968, dopo il terremoto del Belice, i soldi stanziati dal governo per la ricostruzione diventarono un affare per la mafia; l’odore di tutti quei miliardi scatenarono una violenta guerra tra i clan per l’accaparramento degli appalti. Era iniziato un terremoto interno alla mafia, che causava una forte tensione tra vecchie e nuove generazioni. Approfondendo tra i misteri dei finanziamenti per la ricostruzione del Belice (che riguardava tre province: Trapani, Palermo e Agrigento), Francese scoprì che alla base del forte scontro interno mafioso c’erano soprattutto i soldi stanziati per la costruzione della diga Garcia (alcuni terreni erano dei cugini Salvo, legati al democristiano Salvo Lima [Cfr. L. Mirone, Gli insabbiati, p. 158]). Ricorda Felice Cavallaro: “Gli articoli di Mario finivano per porsi in antitesi con quei personaggi come i cugini Salvo e lo stesso Lima verso i quali il Giornale di Sicilia ha sempre avuto un reverenziale rispetto” [Felice Cavallaro, interv. in L. Mirone, Gli insabbiati, p. 159]. Dal 4 al 21 settembre 1977, Francese pubblica una clamorosa inchiesta in sei puntate in cui, ripercorrendo la guerra di mafia, scrive degli interessi, delle collusioni e delle corruzioni dietro l’affare della diga. In quella occasione Mario Francese fu il primo a fare il nome di Totò Riina e delle società ad esso collegate che parteciparono alla gara di appalti.
Mauro Rostagno
Sociologo. Era stato anima del sessantotto e uno dei padri di Lotta continua. Trasferitosi in Sicilia per fondare una comunità di recupero per tossicodipendenti, era diventato il direttore di RTC, una televisione privata di Trapani. Raccontava in una lettera indirizzata ad un amico:
“Ho cominciato a mandare le telecamere tra la gente, farla parlare, ho fatto un gran casino sull’acqua (che manca ed è inquinata), sulla monnezza (città sporche, i traffici loschi della nettezza urbana), sulle case popolari, sulle scuole antigieniche e carenti, sui palazzi di giustizia lasciati deserti dai sostituti procuratori, soprattutto sulla sanità pubblica. Ho scelto di non fare televisione seduto dietro a una scrivania, ma in mezzo alla gente, con un microfono in pugno mentre i fatti succedono. Sociologicamente si chiama “primato dell’esistenza sul teorico”: e già questo a Trapani è profondamente antimafioso”.
Rostagno fu ucciso in circostanze ancora misteriose alle porte di Trapani, il 26 settembre del 1988. Sconosciuti i nomi degli assassini e dei mandanti.
Beppe Alfano
Giornalista di Barcellona Pozzo di Gotto (ME), corrispondente de La Sicilia. Conduceva la trasmissione “Filo diretto”, per l’emittente Telenews (dell’editore Antonio Mazza, ucciso pochi mesi dopo Alfano), programma basato sugli interventi telefonici degli ascoltatori, dove gli amministratori erano chiamati a rispondere. Aveva scoperto gli scandali di un’associazione di assistenza dove avevano messo le mani insieme politici e mafiosi. Fu ucciso nel gennaio del 1993.
A questo elenco manca Giuseppe Fava, ucciso nel gennaio del 1984, a cui sono dedicati molti post in questo blog.
Bavagghiu in siciliano vuol dire bavaglio. È la metafora che utilizza il giornalista Riccardo Orioles per titolare un pezzo scritto nell’aprile del 1995 su I Siciliani nuovi a proposito del rapporto tra i giornalisti uccisi e gli organi collettivi siciliani che li tutelavano:
“La Sicilia fra tutte le regioni d’Italia è quella che ha dato il più gran numero di giornalisti uccisi nel compimento del proprio dovere. I giornalisti hanno, a loro tutela: un sindacato unitario, che è la Fnsi, un Ordine professionale, un direttore di testata che, loro collega, dovrebbe in linea di massima proteggere i loro interessi contro chiunque. Dei giornalisti uccisi, Peppino Impastato (1978) non ebbe alcuna tutela in quanto non iscritto all’Ordine; molti colleghi si esercitarono liberamente a dargli del terrorista. Mario Francese, cronista del Giornale di Sicilia, fu ucciso mentre indagava su una questione di mafia; ma i proprietari del suo giornale, in un’intervista, misero in dubbio la matrice mafiosa della sua morte, senza reazioni apprezzabili da parte dei colleghi. Al funerale di Giuseppe Fava, nel 1984, sindacato e Ordine nazionale dei giornalisti furono assenti. Lo stesso per Mauro Rostagno, con la motivazione che non era regolarmente iscritto all’Ordine.
Non era regolarmente iscritto neanche Giuseppe Alfano, solitario corrispondente de La Sicilia da Barcellona, ucciso dai mafiosi; lo iscrissero alla memoria dopo la morte, concedendogli finalmente di diventare un giornalista «vero». Il giudice che indagava sul suo assassinio dovette sudar sette camicie per farsi dare, dal suo giornale, gli articoli che gli servivano per indagare; poté averli solo minacciando il ricorso a mezzi legali. E così via. Tutto questo per dire che, se la storia dei giornalisti siciliani è spesso - individualmente - una storia gloriosa, non lo è altrettanto quella dei loro organi collettivi e dei loro giornali”.
lunedì 28 dicembre 2009
La mafia in Sicilia all'inizio degli anni Ottanta
Il periodo tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta fu definito come la stagione di mafia più cruenta. Furono uccisi esponenti di qualsiasi grado delle istituzioni. L’avviso era chiaro: nessuno doveva mettersi in mezzo. Nel giro di pochi anni vennero colpiti giudici (Cesare Terranova 1979, Gaetano Costa 1980 e Rocco Chinnici 1983), politici di primissimo piano come Piersanti Mattarella, democristiano, appena nominato presidente della Regione Sicilia e Pio La Torre, 1982, segretario regionale del PCI, da sempre attivo nella lotta antimafia.
“Sono di certo nella storia italiana il primo generale dei carabinieri che ha detto chiaro e netto al governo: una prefettura come prefettura, anche se di prima classe, non mi interessa. Mi interessa la lotta contro la Mafia, mi possono interessare i mezzi e i poteri per vincerla nell’interesse dello Stato” [La Repubblica, 10 agosto 1982]. Queste erano state le parole del nuovo prefetto di Palermo, il generale dalla Chiesa, spedito in Sicilia a combattere la mafia dopo essere stato determinante nella lotta al terrorismo. “Non chiedo leggi speciali, chiedo chiarezza” rispondeva dalla Chiesa alle domande dell’inviato Giorgio Bocca di Repubblica. Il generale era fiducioso che quei “poteri speciali” di coordinamento nazionale potessero arrivare presto. Non arrivarono mai. E lui circa un mese dopo morì, in una delle stragi mafiose sfortunatamente famose e ancora ricordate dall’opinione pubblica italiana.
Carlo Alberto dalla Chiesa era già stato in Sicilia tra il 1966 e il 1973, anni in cui era venuto a conoscenza della mafia agricola, alla guida della quale vi era Luciano Liggio. Una mafia, che tornato in Sicilia gli sembrava profondamente cambiata:
Oggi mi colpisce il policentrismo della Mafia, anche in Sicilia, e questa è davvero una svolta storica. E’ finita la mafia geograficamente definita della Sicilia occidentale. Oggi la mafia è forte anche a Catania, anzi da Catania viene alla conquista di Palermo. Con il consenso della mafia palermitana, le quattro maggiori imprese edili catanesi oggi lavorano a Palermo. Lei crede che potrebbero farlo se dietro non ci fosse una nuova mappa del potere mafioso?
Dalla Chiesa accennava ai quattro cavalieri del lavoro catanesi Costanzo, Graci, Rendo e Finocchiaro, ricchissimi imprenditori in odor di collusione con la mafia. Seguiva questa pista il prefetto di Palermo che doveva combattere la mafia, attestava che la geografia di Cosa nostra stava cambiando, che aveva annesso la città di Catania, dove indisturbati e impuniti facevano affari politici, imprenditori, mafiosi, ai margini dei quali una parte della magistratura non svolgeva il proprio compito. Voleva poteri speciali dalla Chiesa, anche per scendere a fondo nei conti di quelle imprese che costruivano grandi opere in tutta la Sicilia, avide come pescecani, non lasciando nessun appalto libero dalla loro gestione.
La mafia stava cambiando: più potente grazie agli accordi politici, ricchissima dopo essere diventata gestrice mondiale del traffico di droga e con nuove prospettive di allargamento e nuovi strumenti come il riciclaggio e la gestione degli appalti. E puntava sempre più in alto, con la necessità primaria di tessere rapporti con la finanza internazionale e con la politica mondiale. Continuava dalla Chiesa:
La mafia ormai sta nelle maggiori città italiane dove ha fatto grossi investimenti edilizi, o commerciali e magari industriali. Vede, a me interessa conoscere questa “accumulazione primitiva” del capitale mafioso, questa fase di riciclaggio del denaro sporco, queste lire rubate, estorte che architetti o grafici di chiara fama hanno trasformato in case moderne o alberghi e ristoranti à la page. Ma mi interessa ancora di più la rete mafiosa di controllo, che grazie a quelle case, a quelle imprese, a quei commerci magari passati a mani insospettabili, corrette, sta nei punti chiave, assicura i rifugi, procura le vie di riciclaggio, controlla il potere.
Dalla Chiesa fu ucciso il 3 settembre del 1982, dopo appena cento giorni dall’inizio del suo mandato, in viale Isidoro Carini a Palermo. Fu accusato della strage il boss catanese Benedetto Santapaola che già aveva cominciato la latitanza nel giugno dello stesso anno, incriminato per la strage della circonvallazione di Palermo, dove Alfio Ferlito, capo-mafia catanese nemico dei Santapaola, e tre carabinieri addetti alla scorta vennero barbaramente uccisi [Ancora sull’intervista di Bocca a dalla Chiesa, rilasciata a La Repubblica].
“Scusi la curiosità, generale – chiede Giorgio Bocca – Ma quel Ferlito mafioso, ucciso nell’agguato sull’autostrada, quando ammazzarono anche i carabinieri di scorta, non era il cugino dell’assessore ai lavori pubblici di Catania?” “Si”, rispose dalla Chiesa”.
Eppure, qualche mese prima, Santapaola continuava a regnare indisturbato a Catania. Ci sono due istantanee di quella Catania di inizio anni Ottanta; quella città dove il potere politico, il potere economico e il potere mafioso lavoravano in perfetta armonia, coesistendo serenamente, scambiandosi cortesie vicendevolmente. La prima è una foto in cui il prefetto etneo Abatelli rende omaggio con la sua presenza all’inaugurazione del nuovo salone automobilistico di Santapaola. La seconda foto fu scattata all’inaugurazione del negozio di abbigliamento del boss mafioso Rosario Romeo, “ritratto con Santapaola, il sindaco di Catania Salvatore Coco, il presidente della Provincia Giacomo Sciuto, il deputato regionale socialdemocratico Salvatore Lo Turco, il segretario provinciale del Psdi Antonello Longo, il dirigente del servizio sanitario della casa circondariale di Catania Franco Guarnera, il medico chirurgo Raimondo Bordonaro, poi arrestato per traffico di droga e armi, il consigliere comunale Salvatore Di Stefano, i due nipoti del cavaliere del lavoro Carmelo Costanzo – Giuseppe e Vincenzo – e il genero del cavaliere del lavoro Gaetano Graci, Placido Filippo Aiello” [N. dalla Chiesa, Storie, p.9]. Storia ormai, di una città in cui non era necessario cercarsi le verità tanto erano lampanti. La mafia era lì, impunita, a stringere accordi e protezioni. Eppure non se ne faceva parola.
domenica 27 dicembre 2009
I Siciliani: Direttore Giuseppe Fava 1983-1984
La storia de I Siciliani inizia negli stessi giorni del licenziamento di Fava dalla direzione del Giornale del Sud. Si era parlato durante l’anno, tra le scrivanie della redazione del quotidiano, della possibilità di fondare insieme un nuovo periodico. Il sogno di Fava e dei suoi ragazzi era un giornale libero, popolare, senza padroni, edito e gestito da una cooperativa, in maniera che la proprietà fosse degli stessi giornalisti che ci lavoravano. Per questa idea i redattori cominciarono a riunirsi dal dicembre dell’1981, lavorando al progetto editoriale durante tutto l’anno seguente.
Fava e i suoi ragazzi avrebbero voluto dare vita ad un settimanale o ad un quotidiano ma, visto le condizioni economiche di partenza, optarono per la scelta del mensile. Venne rilevata la cooperativa RADAR, una vecchia cooperativa di cui Pippo Fava era già membro, in cui entrarono tutti i giornalisti che gli erano stati accanto nell’esperienza del quotidiano catanese e che si erano battuti per lui nella scelta della proprietà di sollevarlo dall’incarico. Ricordiamo quei giornalisti, nucleo fondatore de I Siciliani: Elena Brancati, Cettina Centamore, Claudio Fava, Miki Gambino, Giovanni Iozzia, Rosario Lanza, Riccardo Orioles, Nello Pappalardo, Giovanna Quasimodo, Antonio Roccuzzo, Fabio Tracuzzi e Lillo Venezia. Non avevano più uno stipendio, ma avevano adesso un loro giornale per essere padroni delle loro scelte e della loro storia. Tutti non avevano avuto nessun dubbio a seguire il loro direttore.
La cooperativa richiese e ottenne un fido regionale da duecentocinquanta milioni, con cui furono acquistate due rotative da un’asta in Svizzera, firmando delle cambiali. Avevano affittato uno scantinato ai piedi dell’Etna, a S.Agata li Battiati, dove installarono la tipografia (macchine e computer e un piccolo studio fotografico), e dove fu organizzata la redazione. Per dare una copertura economica al progetto avevano predisposto una tipografia commerciale al fine di racimolare qualche soldo in previsione del lancio del giornale. Per rodare le macchine lavorarono per qualche tempo a Walkie Talkie, un giornale in lingua inglese indirizzato agli americani della Base Nato di Sigonella. Parallelamente la cooperativa si dedicava anche ad altri piccoli lavori tipografici.
Bisognava aspettare il momento giusto per partire con l’esperienza:
“A fine novembre, Pippo Fava arriva in redazione […] e fa: “Ragazzi, si fa il giornale”. “Quando?” “Con quali soldi?” “Io faccio il pezzo sulla Procura!” “Come lo chiamiamo?” “Io ho un’idea per il pezzo di colore” “Ma i soldi...”.
[La redazione de I Siciliani, Un uomo, I Siciliani, Gennaio 1984]
Entro la fine del 1982 I Siciliani doveva essere in edicola. Quella di Pippo Fava era stata una forzatura sul piano dei tempi ma profetica, una mossa doverosa alla luce dei fatti di sangue di quell’anno: l’omicidio dalla Chiesa, che poco prima di essere ucciso aveva pubblicamente additato i cavalieri del lavoro di Catania di collusione con la mafia, e la strage della circonvallazione di Palermo, dove era stato ucciso il boss catanese Alfio Ferlito. Di questi due omicidi era stato incriminato Nitto Santapaola, boss della mafia catanese, già latitante, ma in “amicizia” da mesi con i suddetti cavalieri. Quello era il momento giusto per Pippo Fava per portare alla ribalta Catania, città in cui ancora si diceva che la mafia non esistesse sebbene fosse stata scossa dall’“Effetto dalla Chiesa”.
“Aveva ragione lui – ricorda Antonio Roccuzzo – non esisteva una testata che parlasse di Palermo e di Catania in modo organico. Non c’era un giornale che raccontava i fatti per quello che erano, che faceva inchieste e approfondimenti sulla realtà siciliana” [Antonio Roccuzzo interv. in L.Mirone, Gli insabbiati]. Tutto l’anno 1982 fu dedicato al lavoro per il giornale: furono mesi di grande dedizione, appagati, alla vigilia di Natale, dall’uscita nelle edicole del mensile che le macchine tipografiche avevano stampato. I Siciliani, anno I numero 1: una grande inchiesta sui “Quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa”, un servizio sulla difficoltà del mestiere dei giudici in Sicilia, e “L’amore e la donna nel sud”.
Il metodo e la formazione dei giornalisti
Pippo Fava per quei ragazzi che iniziarono con lui l’avventura de I Siciliani fu innanzitutto un maestro di vita e di giornalismo. L’impronta che Fava impresse sulla vita di ogni ragazzo fu fortissima; tutti ancora portano con sé quella straordinaria esperienza, tradotta ormai in una enorme coerenza nella propria professione. Erano insegnamenti continui quelli del direttore ai suoi giornalisti, ma sempre informali: se ne parlava al bar, si discuteva di occhielli e box tra un caffé e l’altro.
Tutti i giornalisti avevano iniziato dalla cronaca nera. A chi si era presentato proponendo una collaborazione per gli esteri, Pippo Fava aveva declinato, e sorridendo aveva detto: “in fondo a destra c’è la cronaca nera, dì che ti mando io!”. La cronaca nera fu una palestra di vita; fu così che da una ingenuità a un’altra si cominciò a parlare di mafia a Catania, di una criminalità ben organizzata, evidente, tracciata seguendo la mappa delle famiglie vincenti, degli scontri fra clan, dei morti ammazzati nei quartieri popolari. I giornalisti redigevano così cronache e inchieste minuziose, sempre corredate dai nomi e cognomi dei mafiosi.
La lezione più importante era stata quella di affezionarsi alle cronache, parlandone con un profondo rispetto, immedesimandosi per capire la disperazione che c’è dietro ogni essere umano e ogni vita. Raccontare le storie, iniziando sempre dai personaggi e dagli uomini, narrando semplicemente attraverso immagini, come in una carrellata cinematografica, che produceva alla fine una cronaca dal gusto letterario. Fava cercava di stimolare nei giovani la curiosità per l’uomo che c’era dietro ogni notizia, cercando di trovare il “punto titolo” più efficace, di appassionare i lettori, attraverso anche una fruizione di articoli che sebbene parlassero di argomenti impegnativi non risultassero pesanti da leggere.
Giuseppe Fava mostrava ai suoi giornalisti il bisogno di una grande autonomia e libertà nella professione. Ognuno doveva essere in grado, un domani, di potersi fare un giornale da solo. Fava insegnava a quei ragazzi la libertà di contare solo sulle proprie conoscenze, senza subordinazioni e senza ossequi. Per questo propose la cooperativa come strumento di autonomia professionale e “impose” ai giornalisti di imparare ad utilizzare i terminali, uno dei lavori manuali più umili, all’epoca illegale perché era vietato dal sindacato. Quel tempo utilizzato ad imparare come funzionavano i computer non era tempo perso, era un mezzo di libertà che i redattori si conquistavano3. E con I Siciliani erano proprio i giornalisti ad essere editori del giornale; ciò che garantiva per Fava la libertà assoluta di informazione e il primo fondamentale passo per la ricerca della verità.
sabato 26 dicembre 2009
I redattori de I Siciliani
Il nucleo fondatore della rivista I Siciliani proveniva, come si è detto, dall’esperienza del Giornale del Sud ed era formato da Elena Brancati, Cettina Centamore, Claudio Fava, Miki Gambino, Giovanni Iozzia, Rosario Lanza, Riccardo Orioles, Nello Pappalardo, Giovanna Quasimodo, Antonio Roccuzzo, Fabio Tracuzzi, Lillo Venezia.
Erano per lo più ventenni, alcuni con esperienze politiche, soprattutto nell’ambito della sinistra, ad esclusione di Fabio Tracuzzi che era di destra, altri semplicemente con interessi culturali e sportivi, ma tutti animati dal grande desiderio di diventare giornalisti.
Per la maggior parte di loro l’esperienza al Giornale del Sud fu il primo vero approccio col mondo dell’informazione. Ci furono inoltre dei collaboratori: Nanni Maione, Tiziana Pizzo, Agrippino Gagliano, Vittorio Lo Giudice, Gaetano Caponetto, Fortunato Grosso, Giusy Cadullo, Carmelo Maiorca, Roberto Milone, Ornella di Blasi, Antonio Speranza; intellettuali siciliani di spicco come, Sebastiano Addamo, Vincenzo Consolo, Michele Pantaleone; disegnatori e vignettisti di grande talento come Bruno Caruso, Alfonso Cucinelli, Gianni Allegra, Franco Donarelli, Amalia Bruno, Salvatore Terracchio, Francesco Giordano, Francesco Cogliandolo, Bruno Ferrigni; i fotografi: Salvatore Magrì, Giovanni Caruso, Serafino Costanzo, Salvo Lupo, Agata Ruscica, Mario Torrisi, Franco Zecchin, Ettore Martinez, Letizia Battaglia, Nunzio Bruno, Maurizio Avolino, Ezio Costanzo.
Non di tutti è stato possibile raccogliere le testimonianze. Tuttavia sono state realizzate le interviste al gruppo centrale di redattori che furono accanto a Fava al Giornale del Sud, furono protagonisti al pari del loro direttore dell’esperienza de I Siciliani e soprattutto continuarono dopo la morte di Fava a tener viva la rivista.
Elena Brancati.Nipote di Vitaliano Brancati, conosceva Giuseppe Fava da diversi anni e quando le venne proposto di entrare al Giornale del Sud accettò entusiasta e si occupò del settore spettacolo.
Nella redazione de I Siciliani, oltre a coordinare il settore spettacolo, svolse diversi ruoli tra cui quello di redattrice del “turistico” e firmò anche servizi di altra natura come l’inchiesta sulla donna e l’ amore nel sud.
Cettina Centamore.
Assunta inizialmente al Giornale del Sud come correttrice di bozze, svolse numerosi ruoli tecnici e giornalistici, dal richiamo di prima pagina alla verifica degli articoli di Fava. L’incontro col direttore avvenne quando si accorse che un articolo stava per essere impaginato pur essendo stato già pubblicato tempo prima. Fu ricevuta da Fava e lo avvertì dell’errore. Dopo quell’incontro iniziò a lavorare a stretto contatto col direttore. Nella redazione de I Siciliani si occupò sempre della gestione tecnica, fungendo da tramite tra i redattori e i tipografi e occupandosi direttamente della fotocomposizione. Inoltre divenne presidentessa della cooperativa Radar e svolse dunque il delicato ruolo di amministratrice delle poche finanze a disposizione, occupandosi personalmente del pagamento di tipografi e fornitori.
Claudio Fava.
Figlio del direttore, entrò a far parte del Giornale del Sud nel giorno del suo compleanno, all’età di 23 anni. Aveva già collaborato con Espresso Sera dal ‘75 al ’78 diventando pubblicista, poi con Antenna Sicilia occupandosi di cronaca. Al Giornale del Sud continuò come capo della redazione di cronaca nera, dove incontrerà i suoi futuri compagni. All’interno dei I Siciliani ebbe, come tutti, diverse mansioni. Si occupò soprattutto di inchieste pesanti: mafia e giustizia, ma anche politica, natura, industria. Insieme a Riccardo Orioles, curò il progetto grafico disegnando le pagine della rivista e occupandosi dell’impaginazione. Quando suo padre fu ucciso diventò il direttore responsabile.
Miki Gambino.
Iniziò a scrivere giovanissimo per il settimanale Antenna Sud legato ad una televisione privata, Sirio 55, diretta dal futuro presidente della regione Nello Musumeci. Per incompatibilità politica decise di andar via, iniziando una collaborazione nel settore dello sport con Espresso Sera.
Quando venne a sapere della nascita del Giornale del Sud, si presentò a Fava che lo incaricò di una piccola inchiesta sull’aborto a Catania. Realizzata l’inchiesta Fava gli comunicò, come accadrà anche ad altri redattori, che “in fondo a destra” c’era la stanza della cronaca ad aspettarlo.
A I Siciliani inizialmente si occupò di inchieste di costume, per poi approdare rapidamente ad argomenti più impegnativi. Sua e di Claudio Fava l’inchiesta sulle tangenti dell’assessorato all’agricoltura. In seguito, dopo la morte del direttore, si occupò quasi esclusivamente di mafia.
Giovanni Iozzia. Entrò a far parte del Giornale del Sud grazie ad una segnalazione del suo professore di Lettere al liceo, amico di Giuseppe Fava. Si occupò di spettacolo sia al Giornale del Sud che a I Siciliani dove lavorò soprattutto nel primo anno.
Rosario Lanza.
Finiti gli studi liceali, bussò alla porta del Giornale del Sud, dove, come gli altri, trovò posto nella redazione di cronaca nera e si occupò soprattutto di giudiziaria.
Nella redazione de I SICILIANI continuò a scrivere di giudiziaria, ma spaziò anche in altri settori come lo sport. Curò inoltre “l’ufficio” abbonamenti postali e per far fronte ad alcune spese ricorda di aver dovuto vendere anche il suo amato motorino.
Riccardo Orioles.
“Metà messinese e metà palermitano”, dopo dieci anni di militanza politica, anche tra le file di Lotta Continua, a trent’anni vinse una borsa di studio per il praticantato che decise di svolgere al Giornale del Sud, dopo aver conosciuto Giuseppe Fava.
La sua aspirazione era di occuparsi di Esteri, ma Fava senza battere ciglio lo informò: “in fondo a destra c’è la stanza della cronaca nera”. A I SICILIANI si occupò del progetto grafico e di impaginazione, insieme a Claudio Fava. Come giornalista scrisse i pezzi che accompagnavano il “Fotografico”1, si occupò di inchieste pesanti, mafia e politica soprattutto, e seguì le vicende di Comiso.
All’interno della redazione dopo la morte del direttore sarà una delle menti più lucide che affronterà lo scontro politico e guiderà il giornale.
Chiusa l’esperienza de I Siciliani contribuì alla nascita e allo sviluppo del settimanale Avvenimenti. Nel 1998 ha creato la Catena di San Libero, e-zine elettronica.
Nello Pappalardo.
Entrò a far parte del Giornale del Sud perché chiamato da Giuseppe Fava che lo aveva conosciuto grazie al suo impegno per il teatro civile. Al quotidiano si occupò di cultura e spettacoli insieme a Giovanni Iozzia ed Elena Brancati. Anche a I SICILIANI continuò ad occuparsi dello stesso settore, contribuendo a dar respiro alla rivista. Restò a I Siciliani fino alla chiusura, nel 1986.
Giovanna Quasimodo.Altro nome illustre della redazione, nipote di Salvatore Quasimodo, approdò, chiamata da Giuseppe Fava, al Giornale del Sud dopo aver lavorato per Telecolor e si occupò di cronaca giudiziaria. In un primo momento fu la presidentessa della cooperativa Radar. Come giornalista, a I Siciliani scrisse alcuni servizi di costume e di argomento politico ed economico, come l’inchiesta sul sogno fallito dell’industria in Sicilia.
Antonio Roccuzzo.Anche lui come gli altri redattori si sentì dire da Giuseppe Fava: “In fondo a destra c’è la porta della cronaca, di’ che ti mando io”. Un paio di giorni prima, come prova, gli era stato assegnato un articolo di colore su un morto ammazzato durante le festività della madonna del Carmelo. Il pezzo fu materialmente cestinato, tuttavia gli fu indicata la porta della redazione della cronaca nera.
A I Siciliani, oltre a curare numerose relazioni pubbliche, si occupò di inchieste giudiziarie: suoi gli articoli sulla procura di Catania. Dopo la chiusura del giornale ha scritto per varie testate come il Manifesto ed altre del gruppo editoriale l’Espresso.
Fabio Tracuzzi.Messinese di nascita, catanese di adozione. Arrivò al Giornale del Sud chiamato da Pippo Fava conosciuto a La Sicilia dove entrambi avevano lavorato. Si occupò del settore sportivo, ambito che curerà anche all’interno de I Siciliani. Fu l’unico di destra in un gruppo di ragazzi di sinistra, ma ciò non comporterà mai problemi, anzi. Dopo l’esperienza ne I Siciliani, girerà varie testate anche fuori dalla Sicilia.
Lillo Venezia.“Corrispondente” da Roma per il Giornale del Sud, nella capitale collaborò a Lotta Continua e fu protagonista nell’esperienza della rivista satirica Il Male. Tornato a Catania decise di aderire a I Siciliani dove si occupò soprattutto di interviste tra cui l’ultima rilasciata da Rocco Chinnici. Fece parte del consiglio di amministrazione della Radar e si occupò di svariate mansioni tecnico-amministrative. La sera del 5 gennaio 1984, a casa della signora Roccuzzo quando, dopo la morte di Fava, i redattori del giornale si incontrarono, fu uno dei primi ad esprimere con forza la necessità di stampare con urgenza il numero di gennaio e quindi di andare avanti.
venerdì 25 dicembre 2009
I servizi e le inchieste del primo anno (1983-1984)
Il giornale si caratterizzò subito per la corposa presenza di inchieste. Ogni inchiesta era curata nei minimi dettagli, un servizio “vecchio stampo”, che poteva arrivare anche a più di venti pagine. Essendo un mensile, l’informazione de I Siciliani doveva essere votata all’approfondimento ma, nello strano panorama editoriale regionale, il giornale di Fava si ritrovava spessissimo ad essere l’unico
a scrivere certe notizie e a fare inchieste su alcuni argomenti:
I servizi rilevanti furono quelli sulla mafia, nelle molteplici vesti e forme (mafia affari e politica, mafia e banche, mafia e camorra), sulla Giustizia e il “Caso Catania”, sullo stanziamento dei missili nucleari nelle Basi Nato siciliane e sul fallimento del sogno industriale regionale.
Era una rivista molto seria ma mai stancante. In questo il linguaggio e la grande sensibilità del direttore, giocavano un ruolo essenziale. Anche i servizi più pesanti, dal punto di vista psicologico, come quelli sulle stragi di mafia, diventavano il pretesto per uno sguardo talvolta ironico del drammaturgo Fava. Un giornalismo votato al racconto, alla narrazione di storie umane, al rispetto di ogni vita spezzata, alla ricerca del vero volto dei siciliani, ma anche provocatorio e grottesco. Così l’ennesimo funerale di Stato per Fava diventava l’occasione di parlare di quel signore, di mestiere becchino, che lavorava sempre a quei funerali così uguali a se stessi dove erano presenti le massime cariche di uno Stato assente.
Erano state numerose le trovate letterarie che Fava aveva ideato durante quel primo anno di vita del giornale, come l’invenzione e la pubblicazione dei verbali segreti della mafia [Giuseppe Fava, I verbali della mafia, I Siciliani, Marzo 1983], l’inchiesta ironica su quanto costa un buon killer [descritti da Fava come “elemento di serena moderazione degli eccessi politici e di giusto equilibrio dei turbamenti sociali,[…] normale strumento di lavoro: di solito sono uomini politici, manager industriali, grandi operatori economici, i quali hanno una vera e proprio uscita in bilancio alla voce: spese varie e di ammortamento”. Giuseppe Fava, Quanto costa un buon killer?, I Siciliani, Luglio 1983], fino alla teatrale messa in scena di una fantomatica arringa in difesa di un cavaliere mafioso [L’avvocato difensore di un cavaliere accusato di associazione mafiosa termina la sua arringa con queste parole: “Eccellentissimi, io vi chiedo perdono, forse voi appartenete a quella tale minoranza di imbecilli di questa nazione, i quali ancora lottano e credono che nella vita di ogni uomo si possa affermare il suo reale merito, e che ci sia un ideale morale di vivere. In tale ipotesi, chiedendovi di assolvere il qui presente cavaliere, io vi chiedo sinceramente perdono!” Giuseppe Fava, Arringa in difesa di un cavaliere mafioso, I Siciliani, Ottobre 1983].
Scriveva Sebastiano Addamo a proposito dello stile della scrittura di Giuseppe Fava nelle inchieste de I Siciliani:
Da dicembre 1982 a gennaio 1984 furono pubblicati undici numeri [il primo uscì il 22 dicembre 1982 e fu ristampato tre volte poiché le copie si esaurirono nel giro di una settimana e dunque il numero 2 dovette uscire nel febbraio 1983. Nell’agosto di quell’anno I Siciliani non uscì e a dicembre furono pubblicati in numero doppio il 10 e l’11].
Una prima quantificazione dei contenuti della rivista durante il primo anno ha dato i seguenti risultati: su un totale di 314 servizi, il 41% riguarda i 4 settori indicati nell’indice come Attualità – Politica – Economia – Giustizia. Sono per lo più lunghi servizi, collocati nella prima parte del giornale e che occupano circa la metà delle pagine di ogni numero.
Il restante 59% riguarda altri settori: Spettacolo (54 servizi), Cultura (38), Turismo (29), Costume (22), Natura (14), Umorismo (11), Sport (6) e curiosità varie (10).
All’interno dei primi quattro settori sono state individuate alcune macro aree tematiche:
- il tema della collusione fra Mafia, Imprenditoria e Politica, centrale in 42 servizi e presente comunque con frequentissimi richiami anche in molti altri;
- il tema della difficile amministrazione della giustizia in Sicilia, cui furono dedicati specificamente 26 servizi;
- il problema dell’installazione dei missili Cruise a Comiso, oggetto di inchieste e riflessioni in 16 articoli;
- il tema dello sviluppo economico della Sicilia e in particolare delle storture della industrializzazione dell’isola, affrontato in 11 articoli.
Furono soprattutto questi i temi su cui il giornale condusse le sue inchieste e le sue battaglie principali, i temi che costituirono l’asse portante su cui I Siciliani costruì la sua identità mediatica e ideologica, la sua fisionomia di giornale teso con le sue denunce a dare un concreto contributo per frenare violenza e criminalità, corruzione e illegalità dilaganti.
E’ importante però far notare che la differenza tra le macro aree tematiche non è netta, anzi spesso esse s’intrecciano tra loro.
a scrivere certe notizie e a fare inchieste su alcuni argomenti:
“Quel silenzio informativo, prima e anche dopo che lo uccidessero, fece paradossalmente la “fortuna” del nostro giornale mensile: I Siciliani si faceva forte del fatto che gli altri non pubblicavano le notizie. Facevamo scoop per silenzio e omissioni altrui”A Giuseppe Fava bisogna attribuire le inchieste più importanti del primo anno. Tutte inchieste atte a far conoscere i veri potenti della regione e di Catania in particolare. Altre inchieste di grande interesse furono condotte dai giornalisti Claudio Fava, Miki Gambino, Riccardo Orioles e Antonio Roccuzzo, sempre sotto la supervisione di Giuseppe Fava, loro maestro e direttore.
[Antonio Roccuzzo in La maestra e il diavolo].
I servizi rilevanti furono quelli sulla mafia, nelle molteplici vesti e forme (mafia affari e politica, mafia e banche, mafia e camorra), sulla Giustizia e il “Caso Catania”, sullo stanziamento dei missili nucleari nelle Basi Nato siciliane e sul fallimento del sogno industriale regionale.
Era una rivista molto seria ma mai stancante. In questo il linguaggio e la grande sensibilità del direttore, giocavano un ruolo essenziale. Anche i servizi più pesanti, dal punto di vista psicologico, come quelli sulle stragi di mafia, diventavano il pretesto per uno sguardo talvolta ironico del drammaturgo Fava. Un giornalismo votato al racconto, alla narrazione di storie umane, al rispetto di ogni vita spezzata, alla ricerca del vero volto dei siciliani, ma anche provocatorio e grottesco. Così l’ennesimo funerale di Stato per Fava diventava l’occasione di parlare di quel signore, di mestiere becchino, che lavorava sempre a quei funerali così uguali a se stessi dove erano presenti le massime cariche di uno Stato assente.
Erano state numerose le trovate letterarie che Fava aveva ideato durante quel primo anno di vita del giornale, come l’invenzione e la pubblicazione dei verbali segreti della mafia [Giuseppe Fava, I verbali della mafia, I Siciliani, Marzo 1983], l’inchiesta ironica su quanto costa un buon killer [descritti da Fava come “elemento di serena moderazione degli eccessi politici e di giusto equilibrio dei turbamenti sociali,[…] normale strumento di lavoro: di solito sono uomini politici, manager industriali, grandi operatori economici, i quali hanno una vera e proprio uscita in bilancio alla voce: spese varie e di ammortamento”. Giuseppe Fava, Quanto costa un buon killer?, I Siciliani, Luglio 1983], fino alla teatrale messa in scena di una fantomatica arringa in difesa di un cavaliere mafioso [L’avvocato difensore di un cavaliere accusato di associazione mafiosa termina la sua arringa con queste parole: “Eccellentissimi, io vi chiedo perdono, forse voi appartenete a quella tale minoranza di imbecilli di questa nazione, i quali ancora lottano e credono che nella vita di ogni uomo si possa affermare il suo reale merito, e che ci sia un ideale morale di vivere. In tale ipotesi, chiedendovi di assolvere il qui presente cavaliere, io vi chiedo sinceramente perdono!” Giuseppe Fava, Arringa in difesa di un cavaliere mafioso, I Siciliani, Ottobre 1983].
Scriveva Sebastiano Addamo a proposito dello stile della scrittura di Giuseppe Fava nelle inchieste de I Siciliani:
Più raro è invece il passaggio dal giornalismo alla letteratura. È avvenuto con Giuseppe Fava che nacque giornalista, e, del giornalista, seguì dapprincipio la sua vicenda più pura: la cronaca. L’esigenza di dire di più, di dire altro e in altro modo, la necessità di raccontare con più larghezza e più profondità, o di andare al di là della cronaca a seguire il filo teso dell’immaginario, lo avrà potuto condurre verso altre forme di espressione, a anche al romanzo. Perciò la differenza tra il suo essere giornalista e il suo essere narratore, non sta nella differenza tra una scrittura che riporta, e una scrittura che inventa. Inventare, del resto, significa più propriamente trovare: trovare tra le pieghe della cronaca, nel suo fondo sordido e amaro, quelle verità che essa cela e vanno rivelate, anche se non c’è alcunché che le sorregga. Il cronista si fa romanziere per la violenza stessa della cronaca. Questa cronaca virulente e imperversante, per Giuseppe Fava è stata la mafia.Una scrittura che parlava alla gente, con un linguaggio sempre diretto, senza la ricerca di frasi auliche ad effetto, atta a sensibilizzare e continuare quella che doveva essere una riscossa culturale del popolo siciliano intero. Uscirono in edicola, sotto la direzione di Pippo Fava, dei numeri sempre bilanciati: accanto alle inchieste “pesanti” ecco le inchieste sulla donna e l’amore nel sud, le inchieste gastronomiche per le vie del buon mangiare siciliano, i servizi sul Catania in serie A e le storie degli sport minori siciliani, ma anche tanta cultura, con racconti, cinema, teatro e musica. Nel giornale erano presenti anche degli inserti, come quello fotografico, quello turistico, e quello dei fumetti. Centosessanta pagine diventate duecento nel corso dell’anno, pulsanti di cultura e vita siciliana.
Da dicembre 1982 a gennaio 1984 furono pubblicati undici numeri [il primo uscì il 22 dicembre 1982 e fu ristampato tre volte poiché le copie si esaurirono nel giro di una settimana e dunque il numero 2 dovette uscire nel febbraio 1983. Nell’agosto di quell’anno I Siciliani non uscì e a dicembre furono pubblicati in numero doppio il 10 e l’11].
Una prima quantificazione dei contenuti della rivista durante il primo anno ha dato i seguenti risultati: su un totale di 314 servizi, il 41% riguarda i 4 settori indicati nell’indice come Attualità – Politica – Economia – Giustizia. Sono per lo più lunghi servizi, collocati nella prima parte del giornale e che occupano circa la metà delle pagine di ogni numero.
Il restante 59% riguarda altri settori: Spettacolo (54 servizi), Cultura (38), Turismo (29), Costume (22), Natura (14), Umorismo (11), Sport (6) e curiosità varie (10).
All’interno dei primi quattro settori sono state individuate alcune macro aree tematiche:
- il tema della collusione fra Mafia, Imprenditoria e Politica, centrale in 42 servizi e presente comunque con frequentissimi richiami anche in molti altri;
- il tema della difficile amministrazione della giustizia in Sicilia, cui furono dedicati specificamente 26 servizi;
- il problema dell’installazione dei missili Cruise a Comiso, oggetto di inchieste e riflessioni in 16 articoli;
- il tema dello sviluppo economico della Sicilia e in particolare delle storture della industrializzazione dell’isola, affrontato in 11 articoli.
Furono soprattutto questi i temi su cui il giornale condusse le sue inchieste e le sue battaglie principali, i temi che costituirono l’asse portante su cui I Siciliani costruì la sua identità mediatica e ideologica, la sua fisionomia di giornale teso con le sue denunce a dare un concreto contributo per frenare violenza e criminalità, corruzione e illegalità dilaganti.
E’ importante però far notare che la differenza tra le macro aree tematiche non è netta, anzi spesso esse s’intrecciano tra loro.
La mafia e le sue collusioni con la politica e l’imprenditoria siciliana
I servizi su questo tema costituiscono il 41% del totale dei servizi dedicati ai settori Attualità, Politica, Economia e Giustizia e le foto su omicidi di mafia o su personaggi accusati o “in odor” di mafia costituiscono il 30% circa delle foto relative a questa parte del giornale.
Questi dati confermano come la redazione considerasse centrale nella realtà siciliana l’emergenza mafiosa e intendesse quindi, con le armi dell’informazione, denunciando ogni collusione e connivenza, partecipare alla battaglia contro quello che veniva definito un vero e proprio “cancro” della società siciliana, che già stava facendo metastasi in tutta Italia.
L’inchiesta “I quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa”, apparsa sul primo numero del giornale, rappresenta uno dei capisaldi di questa denuncia: 21 pagine, frutto di due anni di lavoro al Giornale del Sud, in cui G. Fava espone le sue convinzioni sulla mafia e sulle sue collusioni con gli ambienti imprenditoriali e politici catanesi. “Per parlare dei cavalieri del lavoro bisogna prima avere chiara la struttura della mafia anni ’80 nei suoi tre livelli: gli uccisori, i pensatori, i politici” [Fava, I quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa, in I Siciliani, n.1 gennaio 1983].
Egli inizia quindi a spiegare cos’era stata la mafia storicamente e cos’era diventata nei primi anni ottanta; il passaggio dalle estorsioni al traffico di droga e ai miliardi degli appalti pubblici; il ruolo fondamentale delle banche per il riciclaggio di denaro sporco. Fava si sofferma poi sui tre livelli della mafia: il primo della manovalanza, il secondo decisionale, quello di chi decide strategie ed escogita il modo di riciclare il denaro sporco, e infine il terzo, il più misterioso, quello politico.
Disegnato il contorno, l’inchiesta punta dritto ai quattro cavalieri del lavoro catanesi, Costanzo, Rendo, Finocchiaro e Graci, “apparsi sulla grande ribalta nazionale” grazie ad alcune interviste del Corriere della Sera, ma soprattutto perché il generale Dalla Chiesa aveva fatto riferimento a loro nella ormai storica intervista a Giorgio Bocca su La Repubblica.
Fava li descrive fisicamente:
descrive le loro attività, i loro affari il loro modo di agire. Descrive anche i loro bunker, denuncia i loro complotti:
Fu un’inchiesta ricca e densa, che citava politici e mafiosi, che nominava Nitto Santapaola, boss di Catania ancora sconosciuto alla maggior parte dell’opinione pubblica e di cui i giornali minimizzavano l’importanza. Un’inchiesta scottante, sbattuta nel primo numero de I Siciliani. Il terremoto era già in corso e molti avrebbero cominciato a tremare [I Siciliani, A ciascuno il suo, n.6 giugno 1983].
Nei numeri successivi furono affrontati, anche con l’intervento di studiosi come Michele Pantaleone, altri aspetti del problema come i rapporti tra Mafia e Camorra, organizzazioni storicamente distanti tra loro, ma che nel traffico di droga avevano trovato un punto di contatto:
Anche su questo aspetto del problema il giornale ospitò interventi di M. Pantaleone le cui analisi sui rapporti tra mafia e politica venivano condivise dalla redazione:
Con un’altra inchiesta di 20 pagine che fu pubblicata nel numero 7 del luglio ‘83, venne tracciato il profilo dei 10 uomini siciliani più potenti, nel bene e nel male, raccontandone vizi e virtù, descrivendo attività e mestieri dei soggetti tirati in ballo. “[…] I coefficienti della potenza nella società siciliana sono soprattutto cinque: Denaro, Autorità, Politica, Popolarità, Talento […]” [Giuseppe Fava, I dieci più potenti della Sicilia, in I Siciliani, n. 7 luglio 1983].
I dieci più potenti, nel bene e nel male, risultarono essere: il cardinale Pappalardo, i cavalieri catanesi Rendo e Costanzo, l’imprenditore Cassina, i politici Gullotti, Capria e Lima, l’esattore Nino Salvo, l’editore giornalista Mario Ciancio, il presentatore Pippo Baudo.
Quello de I Siciliani fu un incessante lavoro teso a sensibilizzare l’opinione pubblica, a raccontare le nefandezze che aveva compiuto e continuava a compiere la classe politica e economico-imprenditoriale regionale. Ma non solo quella regionale. In una serie di servizi la redazione richiamò l’attenzione dei lettori sul fatto che la mafia non era solo un problema siciliano, non operava solo a Palermo, ma era ovunque, a Roma come a Milano ed era anche all’interno dello Stato:
guerra, vietata dalla legge:
Questi dati confermano come la redazione considerasse centrale nella realtà siciliana l’emergenza mafiosa e intendesse quindi, con le armi dell’informazione, denunciando ogni collusione e connivenza, partecipare alla battaglia contro quello che veniva definito un vero e proprio “cancro” della società siciliana, che già stava facendo metastasi in tutta Italia.
L’inchiesta “I quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa”, apparsa sul primo numero del giornale, rappresenta uno dei capisaldi di questa denuncia: 21 pagine, frutto di due anni di lavoro al Giornale del Sud, in cui G. Fava espone le sue convinzioni sulla mafia e sulle sue collusioni con gli ambienti imprenditoriali e politici catanesi. “Per parlare dei cavalieri del lavoro bisogna prima avere chiara la struttura della mafia anni ’80 nei suoi tre livelli: gli uccisori, i pensatori, i politici” [Fava, I quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa, in I Siciliani, n.1 gennaio 1983].
Egli inizia quindi a spiegare cos’era stata la mafia storicamente e cos’era diventata nei primi anni ottanta; il passaggio dalle estorsioni al traffico di droga e ai miliardi degli appalti pubblici; il ruolo fondamentale delle banche per il riciclaggio di denaro sporco. Fava si sofferma poi sui tre livelli della mafia: il primo della manovalanza, il secondo decisionale, quello di chi decide strategie ed escogita il modo di riciclare il denaro sporco, e infine il terzo, il più misterioso, quello politico.
Disegnato il contorno, l’inchiesta punta dritto ai quattro cavalieri del lavoro catanesi, Costanzo, Rendo, Finocchiaro e Graci, “apparsi sulla grande ribalta nazionale” grazie ad alcune interviste del Corriere della Sera, ma soprattutto perché il generale Dalla Chiesa aveva fatto riferimento a loro nella ormai storica intervista a Giorgio Bocca su La Repubblica.
Fava li descrive fisicamente:
Profondamente dissimili l'uno dall'altro, nell'aspetto fisico e nel carattere, Costanzo massiccio e sprezzante, Rendo improvvisamente amabile e improvvisamente collerico, Finocchiaro soave, silenzioso e apparentemente timido, Graci piccolino e indefettibilmente gentile con qualsiasi interlocutore, vestono però tutti alla stessa maniera, almeno nelle apparizioni ufficiali, abito grigio o blu anni cinquanta, cravatta, polsini, di quella eleganza senza moda propria dell'industriale self-made-man.
descrive le loro attività, i loro affari il loro modo di agire. Descrive anche i loro bunker, denuncia i loro complotti:
Già il fatto che questi quattro personaggi si siano riuniti insieme per discutere e decidere il destino futuro dell'imprenditoria e quindi praticamente dell'economia di mezza Sicilia, e stiano lì segretamente, due più due quattro, seduti l'uno in faccia all'altro, a valutare, soppesare, scartare, annettere, distribuire, in una sala che è facile immaginare di vetro e metallo, inaccessibile a tutti, nel cuore segreto dell'impero Rendo, con decine di uomini armati dislocati ad ogni ingresso del palazzo; e che al termine del convegno uno di loro, Costanzo, il più plateale, chiaramente tuttavia portavoce di tutti e infatti mai smentito, dichiari spavaldamente: «Abbiamo deciso di aggiudicarci tutte le operazioni e gli appalti più importanti, quelli per decine o centinaia di miliardi, lasciando agli altri solo i piccoli affari di due o tre miliardi, tanto perché possano campare anche loro!»; e che tutti e quattro siano giudiziariamente accusati di evasioni per decine e forse centinaia di miliardi, tutto denaro pubblico, quindi appartenente anche al maestro elementare, all'operaio, al piccolo artigiano, al contadino, al manovale, all'impiegato di gruppo C, all'emigrante, poveri innumeri italiani che sputano sangue per sopravvivere e spesso maledettamente nemmeno ci riescono; e che taluni di loro siano stati amici del bancarottiere Michele Sindona, o del boss Santapaola ricercato per l'assassinio di Dalla Chiesa, o del clan Ferlito il cui capo venne trucidato insieme a tre poveri carabinieri di scorta: ebbene tutto questo non corrisponde all'immagine, secondo Costituzione, di cavalieri della Repubblica.
Fu un’inchiesta ricca e densa, che citava politici e mafiosi, che nominava Nitto Santapaola, boss di Catania ancora sconosciuto alla maggior parte dell’opinione pubblica e di cui i giornali minimizzavano l’importanza. Un’inchiesta scottante, sbattuta nel primo numero de I Siciliani. Il terremoto era già in corso e molti avrebbero cominciato a tremare [I Siciliani, A ciascuno il suo, n.6 giugno 1983].
Nei numeri successivi furono affrontati, anche con l’intervento di studiosi come Michele Pantaleone, altri aspetti del problema come i rapporti tra Mafia e Camorra, organizzazioni storicamente distanti tra loro, ma che nel traffico di droga avevano trovato un punto di contatto:
La mafia siciliana e la camorra napoletana, pur vivendo ed operando fatti delittuosi sotto lo stesso governo, in regioni quasi limitrofe, in situazione socio-economica similare, non avevano mai mantenuto rapporti di collaborazione, di solidarietà o di mutua assistenza, nemmeno nei momenti di persecuzione della giustizia, come, invece, è avvenuto tra la mafia e altre organizzazioni delittuose, anche lontane dalla Sicilia. Difatti, non s’era mai detto che un boss della mafia era andato a cercare rifugio a Napoli, né che un camorrista sia mai stato ricoverato o assistito dalla mafia a Palermo[…]A creare le condizioni per la riappacificazione e la collaborazione fra napoletani e siciliani, sia in Italia che negli USA, fu Lucky Luciano, il grande trafficante di stupefacenti che non fece parte di nessuna “famiglia”, non ne creò una sua e, tuttavia, operò entro e fuori gli Stati Uniti d’America con una sua rete di spacciatori e “corrieri”.Si passò quindi a denunciare connivenze presenti e passate con gli ambienti politici. “Il potere politico è colluso - scrive Fava - nella stragrande maggioranza. Chi non lo è viene ucciso come Piersanti Mattarella, Presidente della Regione Sicilia, come Pio La Torre, segretario comunista” [Ne “I quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa” Fava raccontò anche il caso di Pasquale Armerico, sindaco DC di Camporeale in provincia di Palermo, che aveva rifiutato la tessera al mafioso Vanni Sacco e ai suoi 400 scagnozzi. La Dc provinciale, guidata da Giovanni Gioia, fedelissimo di Fanfani, gli ritirò la tessera e lo espulse dal partito. Poco dopo fu ucciso dalla mafia].
[M.Pantaleone, Poi arrivò Lucky Luciano e anche Napoli fu Cosa Nostra, in I Siciliani, n.3 marzo 1983]
Anche su questo aspetto del problema il giornale ospitò interventi di M. Pantaleone le cui analisi sui rapporti tra mafia e politica venivano condivise dalla redazione:
I partiti non hanno compreso - o non hanno voluto comprendere - che il problema della mafia è un fatto politico nazionale. E' un problema dei partiti, all'interno dei quali va iniziata la prima vera lotta per sradicare lo "spirito di mafiosità", inteso come solidarietà brutale e istintiva fra quanti vogliono conquistare il potere, "spirito di mafiosità" che soffoca la vita politica in Sicilia, ove il potere politico ha il carattere di tipica marca proconsolare.In questa direzione andò l’inchiesta sull’Assessorato all’agricoltura “Evviva! Grandina, sono miliardi…” che destò particolare scandalo perché rivelò accordi e tangenti che per anni avevano sottratto fondi che sarebbero dovuti andare a sostegno della piccola e media impresa siciliana e dei piccoli contadini I Siciliani, e che invece entrarono nelle tasche di “una ventina di famiglie, sempre le stesse…”:
[Michele Pantaleone, Il cervello omicida non è sempre la mafia, in I Siciliani, n. 2 febbraio 1983]
Le cifre sono semplici e documentabili. E sono contenute in un dossier che la Guardia di Finanza ha raccolto dopo decine di ispezioni bancarie e verifiche documentali: in cinque anni, dal 1976 al 1981 (la gestione dell'assessore Giuseppe Aleppo, per intenderci), l'assessorato regionale all'agricoltura ha erogato trenta miliardi di prestiti al 4% di interesse per i danni subiti dalle aziende agricole siciliane a causa di alluvioni, grandinate o siccità. Di questi 30 miliardi, diciannove sono andati ad un numero ristretto di imprenditori agricoli, non più di una ventina, su migliaia di richieste presentate all'assessorato da piccoli e medi agricoltori, da coltivatori diretti, da cooperative di contadini o di allevatori. Molti non hanno ricevuto neppure una lira: "esiguità dei fondi iscritti in bilancio" si sono giustificati i funzionari della Regione. Ma hanno taciuto quell'altra fetta di verità, emersa soltanto dopo che la Finanza ha potuto guardare negli archivi dell'assessorato all'agricoltura: quasi venti miliardi per venti famiglie, sempre le stesse, puntualissime a ripresentarsi, ogni anno, all'assessore Aleppo per ottenere un congruo risarcimento. Ed ogni anno, colmo della sfortuna, lamentando un danno diverso: vigne distrutte dalla grandine, arance e limoni marciti per la pioggia, bestiame ucciso dalla siccità...Nelle inchieste de I Siciliani un dato ricorreva, quasi fosse un marchio di fabbrica: i nomi. Non c’era servizio in cui non si facessero i nomi, mai nessuna allusione, ma nomi e cognomi; così fu anche per l’inchiesta sui fondi dell’Assessorato all’agricoltura. Chi usufruì dei finanziamenti elargiti dall’assessore Aleppo? “I cugini Salvo, due cavalieri del lavoro catanesi, Gaetano Graci e Mario Rendo[…] l'onorevole Aldo Bassi […] Salvatore Grillo, Gaetano Briuccia e Francesco Spina, grossi nomi della Dc trapanese, […] Alberto Martino, legato al boss Girolamo Marino […]” [Miki Gambino e Claudio Fava, Cavalieri notabili mafiosi e baroni, in I Siciliani, n. 9 ottobre 1983]. La lista purtroppo continuava con altre cooperative e altri nomi di spicco.
[Miki Gambino e Claudio Fava, Evviva grandina, sono miliardi!, in I Siciliani, n. 9 ottobre 1983]
Con un’altra inchiesta di 20 pagine che fu pubblicata nel numero 7 del luglio ‘83, venne tracciato il profilo dei 10 uomini siciliani più potenti, nel bene e nel male, raccontandone vizi e virtù, descrivendo attività e mestieri dei soggetti tirati in ballo. “[…] I coefficienti della potenza nella società siciliana sono soprattutto cinque: Denaro, Autorità, Politica, Popolarità, Talento […]” [Giuseppe Fava, I dieci più potenti della Sicilia, in I Siciliani, n. 7 luglio 1983].
I dieci più potenti, nel bene e nel male, risultarono essere: il cardinale Pappalardo, i cavalieri catanesi Rendo e Costanzo, l’imprenditore Cassina, i politici Gullotti, Capria e Lima, l’esattore Nino Salvo, l’editore giornalista Mario Ciancio, il presentatore Pippo Baudo.
Quello de I Siciliani fu un incessante lavoro teso a sensibilizzare l’opinione pubblica, a raccontare le nefandezze che aveva compiuto e continuava a compiere la classe politica e economico-imprenditoriale regionale. Ma non solo quella regionale. In una serie di servizi la redazione richiamò l’attenzione dei lettori sul fatto che la mafia non era solo un problema siciliano, non operava solo a Palermo, ma era ovunque, a Roma come a Milano ed era anche all’interno dello Stato:
La capitale "politica" della mafia forse è ancora Palermo, ma la capitale economica è diventata ormai Milano[…] Milano è probabilmente diventata nell'ultimo decennio una delle "piazze"sulle quali chi gestisce il traffico internazionale della droga ha pensato di reinvestire una fetta considerevole del denaro proveniente da quei traffici illeciti. Nella notte del 14 febbraio 1983, la prima (e finora unica) inquietante conferma di questo sospetto: "La notte di S. Valentino", così l'hanno definita i giornali. Si tratta della prima operazione antimafia operata da polizia e carabinieri in Italia in attuazione della legge La Torre. Di questo reato, associazione per delinquere di stampo mafioso, furono accusate circa cinquanta persone, catturate quella notte a Milano, Roma e in numerose altre città del nord Italia. Tutte queste persone sono sospettate di appartenere ad una associazione mafiosa che provvedeva al riciclaggio di denaro sporco proveniente da traffici illeciti. Protagonisti di questa storia quattro personaggi, ed altri comprimari più o meno di rilievo, che sembrano usciti da un fantastico romanzo mafioso: Antonio Virgilio, Luigi Monti e i fratelli Giuseppe e Alfredo Bono.Furono denunciati, per esempio, traffici illeciti condotti con la connivenza di apparati statali, come la vendita di armi a paesi in
[A. Roccuzzo, L’armata mafiosa conquista Milano, in I Siciliani, n. 9 ottobre 1983]
guerra, vietata dalla legge:
“E' una prova agghiacciante: l'inchiesta del giudice istruttore trentino Carlo Palermo sul traffico di droga e armi. Essa dimostra perfettamente una cosa, tanto chiara quanto terribile: in quel traffico, forse il più nefando in assoluto nel pur tragico panorama criminale italiano, sono coinvolti direttamente o indirettamente grandi interessi economici statali, legati alla produzione di materiale bellico (l'Italia è una delle nazioni produttrici più competitive del mondo in questo settore) e quindi, visto che l'esportazione di armi è direttamente controllata dai servizi segreti in base alla legge, in quel traffico sono coinvolti anche apparati dello Stato. Quanto dire che è lo Stato che gestisce la mafia! Il giudice Palermo ha ricostruito così tutta la vicenda: anche l'Italia deve esportare armi verso altri paesi, ma la legge vieta di vendere o mediare armi per paesi in guerra e così, dal momento che questo "commercio" è necessario alla bilancia dei pagamenti italiana, le armi percorrono itinerari "illegali", clandestini.Le denunce del giornale proseguirono senza sosta, ma con un’amara consapevolezza: molti erano i caduti per la lotta alla mafia e molti e sempre uguali erano i funerali di Stato:
[Antonio Roccuzzo, La mafia: lo Stato sono io, in I Siciliani, n.10-11 novembre-dicembre 1983]
Un anno dalla morte di Dalla Chiesa, e in questo anno che doveva essere quello della grande vendetta e giustizia, persino la regia del dopo assassinio è diventata perfetta. Uno spettacolo! Prima parte della recita i funerali, tutti i padroni del feudo Sicilia schierati attorno al feretro; il povero Pertini trascinato a Palermo, sempre più vecchio, sempre più stravolto, a piangere sulla spalla di vedove e orfani; la rovente omelia del cardinale Pappalardo che invoca il rugginoso gladio di Roma in soccorso della disperata Sagunto; la folla palermitana che piange e applaude quelle misere bare con le quali uomini coraggiosi scompaiono dalla vita; capi di governo, sindaci, ministri, sottosegretari, deputati, tutti in tetro ed elegante completo scuro, la faccia pallida di emozione e paura, tre squilli di attenti, la grande ovazione di addio, il summit in questura con i ministri degli Interni e Giustizia che riconfermano fiducia, precisano che comunque sarà dura e se ne vanno, l'opinione pubblica che trattiene il respiro, pensa, disperatamente pensa: forse stavolta qualcosa accadrà.Molti di quei caduti avevano tentato quasi riuscendoci di avvicinarsi “al terzo livello” della mafia, avevano lottato e recriminato per riuscire ad avere gli strumenti necessari, ma senza esito. Anche a quelle recriminazioni I Siciliani dettero voce.
[G. Fava, Funerali di Stato, avanti c’è posto, in I Siciliani, n 8 settembre 1983]
Mentre la mafia possiede ormai, e sa usare, le tecnologie più moderne dal kalashinkov al computer, a un anno dall'assassinio di Dalla Chiesa gli uomini che lottano contro la mafia combattono ancora a mani nude. O meglio, sono armati: sono armati di carta e penna. Non è un modo di dire. Tutte le indagini, tutti gli accertamenti, tutti i dati faticosamente raccolti vengono dattiloscritti, infilati in carpette e archiviati alla meglio. Gli archivi sono tre, ognuno per conto suo. Migliaia e migliaia di informazioni, raccolte con la fatica più immane dai migliori uomini su cui può contare oggi lo Stato, e spesso col loro sangue, diventano così praticamente inutilizzabili, confuse nella massa delle carte che affollano i magazzini. Ci sarebbe un modo, certamente, per non rendere inutile il lavoro svolto - in condizioni, lo ripetiamo, d'indicibile difficoltà, rischio e fatica - da finanzieri, carabinieri e poliziotti. Basterebbe memorizzare tutti i dati, raccoglierli centralmente ed inserirli in una banca-dati elettronica […] Allora avrebbero un senso le indagini sull'appalto da un milione. Allora le indagini di routine non servirebbero ad ostacolare quelle veramente essenziali, allora veramente si potrebbe cominciare a tirar fuori, uno dopo l'altro i miliardi della mafia. Ma la banca-dati non c'è. Chinnici - perché non parlate della banca-dati, percristo, alle celebrazioni di Chinnici? - la chiedeva disperatamente, la banca-dati; non c'è magistrato impegnato, a Palermo, che prima o poi non ti porti ansiosamente il discorso sulla banca-dati.
[Riccardo Orioles, Storie di bombe, di miliardi e di una banca dati che non c’è, in I Siciliani, n. 8 settembre 1983]
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