venerdì 25 dicembre 2009

La mafia e le sue collusioni con la politica e l’imprenditoria siciliana

I servizi su questo tema costituiscono il 41% del totale dei servizi dedicati ai settori Attualità, Politica, Economia e Giustizia e le foto su omicidi di mafia o su personaggi accusati o “in odor” di mafia costituiscono il 30% circa delle foto relative a questa parte del giornale.
Questi dati confermano come la redazione considerasse centrale nella realtà siciliana l’emergenza mafiosa e intendesse quindi, con le armi dell’informazione, denunciando ogni collusione e connivenza, partecipare alla battaglia contro quello che veniva definito un vero e proprio “cancro” della società siciliana, che già stava facendo metastasi in tutta Italia.
L’inchiesta “I quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa”, apparsa sul primo numero del giornale, rappresenta uno dei capisaldi di questa denuncia: 21 pagine, frutto di due anni di lavoro al Giornale del Sud, in cui G. Fava espone le sue convinzioni sulla mafia e sulle sue collusioni con gli ambienti imprenditoriali e politici catanesi. “Per parlare dei cavalieri del lavoro bisogna prima avere chiara la struttura della mafia anni ’80 nei suoi tre livelli: gli uccisori, i pensatori, i politici” [Fava, I quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa, in I Siciliani, n.1 gennaio 1983].

Egli inizia quindi a spiegare cos’era stata la mafia storicamente e cos’era diventata nei primi anni ottanta; il passaggio dalle estorsioni al traffico di droga e ai miliardi degli appalti pubblici; il ruolo fondamentale delle banche per il riciclaggio di denaro sporco. Fava si sofferma poi sui tre livelli della mafia: il primo della manovalanza, il secondo decisionale, quello di chi decide strategie ed escogita il modo di riciclare il denaro sporco, e infine il terzo, il più misterioso, quello politico.
Disegnato il contorno, l’inchiesta punta dritto ai quattro cavalieri del lavoro catanesi, Costanzo, Rendo, Finocchiaro e Graci, “apparsi sulla grande ribalta nazionale” grazie ad alcune interviste del Corriere della Sera, ma soprattutto perché il generale Dalla Chiesa aveva fatto riferimento a loro nella ormai storica intervista a Giorgio Bocca su La Repubblica.

Fava li descrive fisicamente:

Profondamente dissimili l'uno dall'altro, nell'aspetto fisico e nel carattere, Costanzo massiccio e sprezzante, Rendo improvvisamente amabile e improvvisamente collerico, Finocchiaro soave, silenzioso e apparentemente timido, Graci piccolino e indefettibilmente gentile con qualsiasi interlocutore, vestono però tutti alla stessa maniera, almeno nelle apparizioni ufficiali, abito grigio o blu anni cinquanta, cravatta, polsini, di quella eleganza senza moda propria dell'industriale self-made-man.

descrive le loro attività, i loro affari il loro modo di agire. Descrive anche i loro bunker, denuncia i loro complotti:

Già il fatto che questi quattro personaggi si siano riuniti insieme per discutere e decidere il destino futuro dell'imprenditoria e quindi praticamente dell'economia di mezza Sicilia, e stiano lì segretamente, due più due quattro, seduti l'uno in faccia all'altro, a valutare, soppesare, scartare, annettere, distribuire, in una sala che è facile immaginare di vetro e metallo, inaccessibile a tutti, nel cuore segreto dell'impero Rendo, con decine di uomini armati dislocati ad ogni ingresso del palazzo; e che al termine del convegno uno di loro, Costanzo, il più plateale, chiaramente tuttavia portavoce di tutti e infatti mai smentito, dichiari spavaldamente: «Abbiamo deciso di aggiudicarci tutte le operazioni e gli appalti più importanti, quelli per decine o centinaia di miliardi, lasciando agli altri solo i piccoli affari di due o tre miliardi, tanto perché possano campare anche loro!»; e che tutti e quattro siano giudiziariamente accusati di evasioni per decine e forse centinaia di miliardi, tutto denaro pubblico, quindi appartenente anche al maestro elementare, all'operaio, al piccolo artigiano, al contadino, al manovale, all'impiegato di gruppo C, all'emigrante, poveri innumeri italiani che sputano sangue per sopravvivere e spesso maledettamente nemmeno ci riescono; e che taluni di loro siano stati amici del bancarottiere Michele Sindona, o del boss Santapaola ricercato per l'assassinio di Dalla Chiesa, o del clan Ferlito il cui capo venne trucidato insieme a tre poveri carabinieri di scorta: ebbene tutto questo non corrisponde all'immagine, secondo Costituzione, di cavalieri della Repubblica.

Fu un’inchiesta ricca e densa, che citava politici e mafiosi, che nominava Nitto Santapaola, boss di Catania ancora sconosciuto alla maggior parte dell’opinione pubblica e di cui i giornali  minimizzavano l’importanza. Un’inchiesta scottante, sbattuta nel primo numero de I Siciliani. Il terremoto era già in corso e molti avrebbero cominciato a tremare [I Siciliani, A ciascuno il suo, n.6 giugno 1983].

Nei numeri successivi furono affrontati, anche con l’intervento di studiosi come Michele Pantaleone, altri aspetti del problema come i rapporti tra Mafia e Camorra, organizzazioni storicamente distanti tra loro, ma che nel traffico di droga avevano trovato un punto di contatto:

La  mafia siciliana e la camorra napoletana, pur vivendo ed operando fatti delittuosi sotto lo stesso governo, in regioni quasi limitrofe, in situazione socio-economica similare, non avevano  mai mantenuto rapporti di collaborazione, di solidarietà o di mutua assistenza, nemmeno nei momenti di persecuzione della giustizia, come, invece, è avvenuto tra la mafia e altre organizzazioni delittuose, anche lontane dalla Sicilia. Difatti,  non  s’era mai detto che un boss della mafia era andato a cercare rifugio a Napoli, né che un camorrista sia mai stato ricoverato o assistito dalla mafia a Palermo[…]A creare le condizioni per la riappacificazione e la collaborazione fra napoletani e siciliani, sia in Italia che negli USA, fu Lucky Luciano, il grande trafficante di stupefacenti che non fece parte di nessuna “famiglia”, non ne creò una sua e, tuttavia, operò entro e fuori gli Stati Uniti d’America con una sua rete di spacciatori e “corrieri”.
[M.Pantaleone, Poi arrivò Lucky Luciano e anche Napoli fu Cosa Nostra, in I Siciliani, n.3 marzo 1983]
Si passò quindi a denunciare connivenze presenti e passate con gli ambienti politici. “Il potere politico è colluso - scrive Fava - nella stragrande maggioranza. Chi non lo è viene ucciso come Piersanti Mattarella, Presidente della Regione Sicilia, come Pio La Torre, segretario comunista” [Ne “I quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa” Fava raccontò anche il caso di Pasquale Armerico, sindaco DC di Camporeale in provincia di Palermo, che aveva rifiutato la tessera al mafioso Vanni Sacco e ai suoi 400 scagnozzi. La Dc provinciale, guidata da Giovanni Gioia, fedelissimo di Fanfani, gli ritirò la tessera e lo espulse dal partito. Poco dopo fu ucciso dalla mafia].

Anche su questo aspetto del problema il giornale ospitò interventi di M. Pantaleone le cui analisi sui rapporti tra mafia e politica venivano condivise dalla redazione:
I partiti non hanno compreso - o non hanno voluto comprendere - che il problema della mafia è un fatto politico nazionale. E' un problema dei partiti, all'interno dei quali va iniziata la prima vera lotta per sradicare lo "spirito di mafiosità", inteso come solidarietà brutale e istintiva fra quanti vogliono conquistare il potere, "spirito di mafiosità" che soffoca la vita politica in Sicilia, ove il potere politico ha il carattere di tipica marca proconsolare.
[Michele Pantaleone, Il cervello omicida non è sempre la mafia, in I Siciliani, n. 2 febbraio 1983]
In questa direzione andò l’inchiesta sull’Assessorato all’agricoltura “Evviva! Grandina, sono miliardi…” che destò particolare scandalo perché rivelò accordi e tangenti che per anni avevano sottratto fondi che sarebbero dovuti andare a sostegno della piccola e media impresa siciliana e dei piccoli contadini I Siciliani, e che invece entrarono nelle tasche di “una ventina di famiglie, sempre le stesse…”:
Le cifre sono semplici e documentabili. E sono contenute in un dossier che la Guardia di Finanza ha raccolto dopo decine di ispezioni bancarie e verifiche documentali: in cinque anni, dal 1976 al 1981 (la gestione dell'assessore Giuseppe Aleppo, per intenderci), l'assessorato regionale all'agricoltura ha erogato trenta miliardi di prestiti al 4% di interesse per i danni subiti dalle aziende agricole siciliane a causa di alluvioni, grandinate o siccità. Di questi 30 miliardi, diciannove sono andati ad un numero ristretto di imprenditori agricoli, non più di una ventina, su migliaia di richieste presentate all'assessorato da piccoli e medi agricoltori, da coltivatori diretti, da cooperative di contadini o di allevatori. Molti non hanno ricevuto neppure una lira: "esiguità dei fondi iscritti in bilancio" si sono giustificati i funzionari della Regione. Ma hanno taciuto quell'altra fetta di verità, emersa soltanto dopo che la Finanza ha potuto guardare negli archivi dell'assessorato all'agricoltura: quasi venti miliardi per venti famiglie, sempre le stesse, puntualissime a ripresentarsi, ogni anno, all'assessore Aleppo per ottenere un congruo risarcimento. Ed ogni anno, colmo della sfortuna, lamentando un danno diverso: vigne distrutte dalla grandine, arance e limoni marciti per la pioggia, bestiame ucciso dalla siccità...
[Miki Gambino e Claudio Fava, Evviva grandina, sono miliardi!, in I Siciliani, n. 9 ottobre 1983]
Nelle inchieste de I Siciliani un dato ricorreva, quasi fosse un marchio di fabbrica: i nomi. Non c’era servizio in cui non si facessero i nomi, mai nessuna allusione, ma nomi e cognomi; così fu anche per l’inchiesta sui fondi dell’Assessorato all’agricoltura. Chi usufruì dei finanziamenti elargiti dall’assessore Aleppo? “I cugini Salvo, due cavalieri del lavoro catanesi, Gaetano Graci e Mario Rendo[…] l'onorevole Aldo Bassi […] Salvatore Grillo, Gaetano Briuccia e Francesco Spina, grossi nomi della Dc trapanese, […] Alberto Martino, legato al boss Girolamo Marino […]” [Miki Gambino e Claudio Fava, Cavalieri notabili mafiosi e baroni, in I Siciliani, n. 9 ottobre 1983]. La lista purtroppo continuava con altre cooperative e altri nomi di spicco.

Con un’altra inchiesta di 20 pagine che fu pubblicata nel numero 7 del luglio ‘83, venne tracciato il profilo dei 10 uomini siciliani più potenti, nel bene e nel male, raccontandone vizi e virtù, descrivendo attività e mestieri dei soggetti tirati in ballo. “[…] I coefficienti della potenza nella società siciliana sono soprattutto cinque: Denaro, Autorità, Politica, Popolarità, Talento […]” [Giuseppe Fava, I dieci più potenti della Sicilia, in I Siciliani, n. 7 luglio 1983].
I dieci più potenti, nel bene e nel male, risultarono essere: il cardinale Pappalardo, i cavalieri catanesi Rendo e Costanzo, l’imprenditore Cassina, i politici Gullotti, Capria e Lima, l’esattore Nino Salvo, l’editore giornalista Mario Ciancio, il presentatore Pippo Baudo.

Quello de I Siciliani fu un incessante lavoro teso a sensibilizzare l’opinione pubblica, a raccontare le nefandezze che aveva compiuto e continuava a compiere la classe politica e economico-imprenditoriale regionale. Ma non solo quella regionale. In una serie di servizi la redazione richiamò l’attenzione dei lettori sul fatto che la mafia non era solo un problema siciliano, non operava solo a Palermo, ma era ovunque, a Roma come a Milano ed era anche all’interno dello Stato:
La capitale "politica" della mafia forse è ancora Palermo, ma la capitale economica è diventata ormai Milano[…] Milano è probabilmente diventata nell'ultimo decennio una delle "piazze"sulle quali chi gestisce il traffico internazionale della droga ha pensato di reinvestire una fetta considerevole del denaro proveniente da quei traffici illeciti. Nella notte del 14 febbraio 1983, la prima (e finora unica) inquietante conferma di questo sospetto: "La notte di S. Valentino", così l'hanno definita i giornali. Si tratta della prima operazione antimafia operata da polizia e carabinieri in Italia in attuazione della legge La Torre. Di questo reato, associazione per delinquere di stampo mafioso, furono accusate circa cinquanta persone, catturate quella notte a Milano, Roma e in numerose altre città del nord Italia. Tutte queste persone sono sospettate di appartenere ad una associazione mafiosa che provvedeva al riciclaggio di denaro sporco proveniente da traffici illeciti. Protagonisti di questa storia quattro personaggi, ed altri comprimari più o meno di rilievo, che sembrano usciti da un fantastico romanzo mafioso: Antonio Virgilio, Luigi Monti e i fratelli Giuseppe e Alfredo Bono.
[A. Roccuzzo, L’armata mafiosa conquista Milano, in I Siciliani, n. 9 ottobre 1983]
Furono denunciati, per esempio, traffici illeciti condotti con la connivenza di apparati statali, come la vendita di armi a paesi in
guerra, vietata dalla legge:
 “E' una prova agghiacciante: l'inchiesta del giudice istruttore trentino Carlo Palermo sul traffico di droga e armi. Essa dimostra perfettamente una cosa, tanto chiara quanto terribile: in quel traffico, forse il più nefando in assoluto nel pur tragico panorama criminale italiano, sono coinvolti direttamente o indirettamente grandi interessi economici statali, legati alla produzione di materiale bellico (l'Italia è una delle nazioni produttrici più competitive del mondo in questo settore) e quindi, visto che l'esportazione di armi è direttamente controllata dai servizi segreti in base alla legge, in quel traffico sono coinvolti anche apparati dello Stato. Quanto dire che è lo Stato che gestisce la mafia! Il giudice Palermo ha ricostruito così tutta la vicenda: anche l'Italia deve esportare armi verso altri paesi, ma la legge vieta di vendere o mediare armi per paesi in guerra e così, dal momento che questo "commercio" è necessario alla bilancia dei pagamenti italiana, le armi percorrono itinerari "illegali", clandestini.
[Antonio Roccuzzo, La mafia: lo Stato sono io, in I Siciliani, n.10-11 novembre-dicembre 1983]
Le denunce del giornale proseguirono senza  sosta, ma con un’amara consapevolezza: molti erano i caduti per la lotta alla mafia e molti e sempre uguali erano i funerali di Stato:
 Un anno dalla morte di Dalla Chiesa, e in questo anno che doveva essere quello della grande vendetta e giustizia, persino la regia del dopo assassinio è diventata perfetta. Uno spettacolo! Prima parte della recita i funerali, tutti i padroni del feudo Sicilia schierati attorno al feretro; il povero Pertini trascinato a Palermo, sempre più vecchio, sempre più stravolto, a piangere sulla spalla di vedove e orfani; la rovente omelia del cardinale Pappalardo che invoca il rugginoso gladio di Roma in soccorso della disperata Sagunto; la folla palermitana che piange e applaude quelle misere bare con le quali uomini coraggiosi scompaiono dalla vita; capi di governo, sindaci, ministri, sottosegretari, deputati, tutti in tetro ed elegante completo scuro, la faccia pallida di emozione e paura, tre squilli di attenti, la grande ovazione di addio, il summit in questura con i ministri degli Interni e Giustizia che riconfermano fiducia, precisano che comunque sarà dura e se ne vanno, l'opinione pubblica che trattiene il respiro, pensa, disperatamente pensa: forse stavolta qualcosa accadrà.
[G. Fava, Funerali di Stato, avanti c’è posto, in I Siciliani, n 8 settembre 1983]
Molti di quei caduti avevano tentato quasi riuscendoci di avvicinarsi “al terzo livello” della mafia, avevano lottato e recriminato per riuscire ad avere gli strumenti necessari, ma senza esito. Anche a quelle recriminazioni I Siciliani dettero voce.
Mentre la mafia possiede ormai, e sa usare, le tecnologie più moderne dal kalashinkov al computer, a un anno dall'assassinio di Dalla Chiesa gli uomini che lottano contro la mafia combattono ancora a mani nude. O meglio, sono armati: sono armati di carta e penna. Non è un modo di dire. Tutte le indagini, tutti gli accertamenti, tutti i dati faticosamente raccolti vengono dattiloscritti, infilati in carpette e archiviati alla meglio. Gli archivi sono tre, ognuno per conto suo. Migliaia e migliaia di informazioni, raccolte con la fatica più immane dai migliori uomini su cui può contare oggi lo Stato, e spesso col loro sangue, diventano così praticamente inutilizzabili, confuse nella massa delle carte che affollano i magazzini. Ci sarebbe un modo, certamente, per non rendere inutile il lavoro svolto - in condizioni, lo ripetiamo, d'indicibile difficoltà, rischio e fatica - da finanzieri, carabinieri e poliziotti. Basterebbe memorizzare tutti i dati, raccoglierli centralmente ed inserirli in una banca-dati elettronica […] Allora avrebbero un senso le indagini sull'appalto da un milione. Allora le indagini di routine non servirebbero ad ostacolare quelle veramente essenziali, allora veramente si potrebbe cominciare a tirar fuori, uno dopo l'altro i miliardi della mafia. Ma la banca-dati non c'è. Chinnici - perché non parlate della banca-dati, percristo, alle celebrazioni di Chinnici? - la chiedeva disperatamente, la banca-dati; non c'è magistrato impegnato, a Palermo, che prima o poi non ti porti ansiosamente il discorso sulla banca-dati.
[Riccardo Orioles, Storie di bombe, di miliardi e di una banca dati che non c’è, in I Siciliani, n. 8 settembre 1983]
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