venerdì 18 dicembre 2009

Il 5 gennaio 1984



Nel dicembre del 1983 Giuseppe Fava partecipò al programma “Film story” di Enzo Biagi. Una puntata monografica sulla mafia registrata il 18 dicembre e andata in onda su Retequattro il 29 dello stesso mese. Rilasciò in quella occasione una intervista in cui confermava le idee che avevano permeato il primo anno di attività editoriale de I Siciliani: “I mafiosi stanno in parlamento […] I mafiosi sono ministri, sono banchieri, sono quelli che sono ai vertici della nazione [...] Non sono quelli che ammazzano, quelli sono gli esecutori […]”. È il potere politico, fatto di pensatori e grandi imprenditori, banchieri e capi di partito collusi, la vera mente della mafia. In quell’occasione Pippo Fava proponeva un reset politico-sociale, una Seconda Repubblica.

Giuseppe Fava venne ucciso la sera del 5 gennaio 1984: “alle 21 e 30 d’un piovoso giovedì. È in auto, una Renault prestata da un amico perché la sua vecchia 124 non ce la fa più. Gli sparano alle spalle, cinque colpi di 7.65 alla nuca” [C.Fava, La mafia comanda...]. Ed è scontato che sia un omicidio di mafia. Cosa nostra stavolta aveva ucciso un intellettuale, un uomo che aveva trovato le giuste parole per raccontare e denunciare la mafia e le sue collusioni politiche e imprenditoriali. Per un anno ne aveva parlato in quel mensile. Una voce scomoda al punto da essere troncata in quella maniera plateale, cinque colpi in testa, cinque colpi alla verità e alla forza delle idee, delle parole, della libertà di espressione.

È il primo cadavere eccellente di mafia a Catania. Non c’erano stati giudici uccisi, né politici. A quel punto diventava impossibile non affermare che non ci fosse mafia a Catania. Ma a Catania, quella della “sindrome Catania”, niente era impossibile. Durante i funerali di Pippo Fava, il sindaco Angelo Munzone riusciva a fare un discorso senza mai pronunciare la parola mafia, e per questo fu sommerso dai fischi indignati della gente accorsa alla funzione.
La mafia? È ormai dovunque, nel mondo: ma qui, a Catania, no. Lo escludo. Davanti al mondo testimonio che mai pressione o intimidazione c’è stata, in questa parte della Sicilia, in questa città storicamente immune dal cancro che mi dite. Polveroni, chissà da chi ispirati
[Intervista al sindaco Angelo Munzone su La repubblica, 9 gennaio 1984]
Un funerale svolto senza la presenza di una istituzione: nessun ministro, nessun sottosegretario, nemmeno un rappresentante dell’ordine dei giornalisti. Altri politici, come il democristiano Antonino Drago, lanciavano un duro monito: chiudere presto quell’indagine prima che a Catania accadessero “cose gravi”, come la fuga dei cavalieri ormai criminalizzati dalla stampa.
 […] Chiediamo a Drago un’opinione sugli impressionanti risultati delle inchieste sul dopo dalla Chiesa, e delle stesse intuizioni del generale ucciso, circa un ponte, criminale e di potere, tra la Sicilia mafiosa e questa “altra” Sicilia. «Mi auguro che i magistrati chiudano rapidamente questa indagine, per ridare serenità alle attività pubbliche e alle attività economiche. Sennò, possono succedere cose gravi». Quali? Il messaggio che il capo della Dc catanese affida ai massmedia è pesante: «Questa gente può dire: io qui, d’ora in poi, non investo più una lira. I “cavalieri” da tempo criminalizzati, hanno costruito in quarant’anni veri imperi economici, ma hanno dato notevoli occasioni di lavoro alla città, che, è vero, vive anche di terziario e di altre piccole e medie aziende, ma in crisi […] Abbiamo avuto contatti personali. E questi ci hanno detto: vogliono andarsene».
[Intervista a Nino Drago, l’Unità, 9 gennaio 1984]
Inviti raccolti dal procuratore aggiunto Di Natale, quello del “Caso Catania”, che, dirigendo l’inchiesta personalmente, intraprese la via del delitto passionale o dei debiti di gioco, investigando nei conti del giornale e in quelli della famiglia Fava. In pratica il metodo che la legge La Torre permetteva, veniva paradossalmente utilizzato per la prima volta contro le vittime della mafia.

Catania aveva due volti: la gente comune, intontita e turbata dalla tragedia, che era accorsa numerosa ai funerali e si era stretta attorno ai giornalisti di Fava, e la città dei poteri forti e di Cosa nostra, che cercava di seppellire subito quel delitto scomodo, responsabile di aver indebolito gli equilibri della città già messi a dura prova dopo la criminalizzazione avvenuta dopo l’uccisione del generale dalla Chiesa.
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