giovedì 5 novembre 2009

Una verità lunga vent'anni

La ferocia con cui, alle 22 circa del 5 gennaio 1984, nella allora via dello Stadio, al numero civico 62, fu assassinato Giuseppe Fava avrebbe dovuto subito indirizzare le indagini verso la pista mafiosa, considerando il lavoro svolto dal giornalista in quegli anni al Giornale del Sud prima e a I Siciliani  poi. Eppure le cose non andarono così.
    Per indicare colpevoli e mandanti con sentenza definitiva della Corte d’Assise d’Appello, passata in giudicato, occorreranno circa 20 anni. Il motivo di questo enorme lasso di tempo ha molteplici cause.
    Nei primi anni le indagini furono gestite dalla procura di Catania, retta in quel periodo da Giulio Cesare Di Natale, il quale si comportò in modo assai ambiguo [Secondo Claudio Fava, il giudice Di Natale era “il più corrotto magistrato siciliano a memoria d’uomo”. Cfr. Claudio Fava, Nel nome del padre, Baldini&Castoldi, Milano, 1996, p. 110]. Alcuni esempi. Le perizie sulle armi compatibili con quella dell’omicidio furono assegnate al professore Compagnini che, anni dopo, verrà accusato dal pentito Calderone di essere in rapporti confidenziali col boss Santapaola [Sebastiano Gulisano, intervista, registrata a Roma nel gennaio 2005], riconosciuto dalla sentenza definitiva come mandante dell’omicidio Fava. Dagli atti del processo, iniziato nel dicembre del 1995, si apprende che gli investigatori si mossero, sotto esplicito “imput della procura” a 360° senza però riuscire a seguire nessuna pista concreta [Testimonianza resa durante il processo da Tommaso Berretta, commissario di pubblica sicurezza negli anni dell’omicidio Fava e riportata nel testo di Claudio Fava e Ninni Bruschetta, L’istruttoria].

La rivista I Siciliani non fu presa in considerazione in questa fase, anche se la redazione, più volte, indicò agli inquirenti che la lettura completa della raccolta avrebbe quanto meno aiutato a comprendere il lavoro svolto da Fava e quindi ad indicare una possibile pista da seguire. Per la prima volta a Catania si fece ricorso alla legge Pio La Torre per verificare i movimenti bancari degli indagati, ma a subire questi accertamenti furono solamente la redazione de I Siciliani e lo stesso Giuseppe Fava:
“Per sei mesi la Guardia di Finanza e i Carabinieri – periodicamente sollecitati dal Giudice Di Natale e dal suo sostituto Rosario Grasso – spesero il loro tempo e i loro uomini a ricostruire inutilmente la storia di tutti gli assegni firmati da Fava negli ultimi otto anni e di tutti i poveri movimenti di denaro che erano transitati attraverso le casse del suo giornale”.
Claudio Fava, La mafia comanda a Catania
    La stampa, come si vedrà nel prossimo paragrafo, contribuirà a creare quello che può ben definirsi un vero e proprio depistaggio.
     La città da una parte fu solidale con la rivista e con la figura del suo direttore, ma dall’altra manifestò la volontà netta di affermare che la mafia a Catania non esisteva. Ci furono reazioni decise di esponenti politici e del mondo intellettuale, di destra, di centro e di sinistra.
“Non c’è mai stata collusione tra la criminalità organizzata e la gestione politica. Ne sono indenni i partiti politici, nessuno escluso” dichiarò Nino Drago, padre padrone della DC a Catania, andreottiano di ferro [Dichiarazione rilasciata da Nino Drago al Corriere della Sera subito dopo la morte di Giuseppe Fava. L’articolo è a firma di Bruno Tucci cit. in I Siciliani, Anno II, n.15 aprile 1984].
“E allora, mi chiedo perché uccidere Fava? non poteva, a mio giudizio, essere considerato pericoloso da chi si muove su operazioni in grande scala. In questa città non vi sono mai state intimidazioni nei periodi elettorali: tutt’al più favoritismi, galoppinaggio. Certo, i miliardi che si guadagnano con la droga possono aver accresciuto la potenza della criminalità, ma dubito che possano averle dato peso politico. E così non riesco a trovare una spiegazione razionale alla morte di Pippo”. 
Sono le parole dell’allora preside della facoltà di Lettere e Filosofia di Catania, lo storico Giuseppe Giarrizzo. [Dichiarazione rilasciata da Giuseppe Giarrizzo a La Sicilia subito dopo la morte di Goiseppe Fava. L’articolo è a firma di Tony Zermo. Cit. in I Siciliani, Anno II, n.15 aprile 1984]

    Poi ci furono le numerose voci diffamatorie nei confronti di Giuseppe Fava: ci fu chi disse che a compiere l’omicidio era stato il padre di una giovane ragazza con cui Fava avrebbe avuto rapporti; chi sostenne che il movente stava nei debiti contratti da Fava o in un fantomatico traffico di auto rubate sul quale Fava indagava. Molte e varie furono le voci messe in giro ad arte, sussurrate nei salotti della Catania bene, la stessa Catania che sembrava aver fretta, dopo averlo seppellito, di dimenticare e far dimenticare Giuseppe Fava.
    Una svolta significativa nelle indagini si ebbe nei primi anni novanta, quando col fenomeno del pentitismo fu dato un duro colpo alla cosca mafiosa catanese del boss Nitto Santapaola.
 
Il processo per la morte di Fava iniziò nel dicembre del 1995 e rientrò nel troncone denominato ORSA MAGGIORE 3, riguardante gli omicidi del clan Santapaola. Circa 234 udienze, 260 testimonianze e seimila pagine di deposizioni verbalizzate. Il processo si concluderà con sentenza definitiva nel novembre del 2003, una sentenza che non lascia spazio a dubbi o a libere interpretazioni, come afferma l’avvocato di parte civile della rivista I Siciliani, Fabio Tita:
“Le due sentenze di primo grado e la sentenza di appello, che fa proprie molte delle conclusioni su questo tema, non lasciano dubbi sulla matrice del delitto, che è una matrice mafiosa, e sulla causa determinante, che è l’attività di denuncia del fenomeno mafioso e dei suoi rapporti col mondo politico e imprenditoriale locale, condotta da Pippo Fava su I Siciliani”.
Avvocato Fabio Tita, intervista, cit.
    Ruolo importante nel processo fu svolto da Maurizio Avola, collaboratore di giustizia, che si autoaccusò di numerosi omicidi e che nel 1996 fu condannato con rito abbreviato a 6 anni di reclusione anche per l’omicidio di Giuseppe Fava. La testimonianza di Avola fu ritenuta attendibile, in tutti e tre i gradi di giudizio, per quanto riguarda il mandante e l’organizzatore, rispettivamente Benedetto Santapaola detto “Nitto” e suo nipote Ercolano Aldo, entrambi condannati all’ergastolo:
“[…]Avola ripetutamente e costantemente (al PM il 10 e 16.3.1994, nel dibattimento di primo grado, nel processo Santapaola Benedetto +3 e nel processo Aria Pulita) ha detto che Fava è stato ucciso perché parlava male dei Cavalieri del Lavoro e parlava male di coloro che stavano bene con la famiglia Santapaola[…]”.
Sentenza della Corte di Assise di Appello di Catania Sez. 2^, depositata presso la cancelleria della Corte d'Assise di Catania. 
    In primo grado Avola fu creduto anche per quanto riguarda il commando che eseguì l’omicidio composto da D’Agata Marcello, Giammuso Francesco, Ercolano Aldo, Vincenzo Santapaola e lo stesso Avola.
    Successivamente, nel dibattimento di secondo grado e poi definitivamente in appello, a causa di mancati riscontri con altri pentiti, fra cui soprattutto Grancagnolo Carmelo, tutti gli accusati di partecipazione al commando vennero assolti, ad esclusione di Avola che era già stato condannato.
    Il processo fu “una finestra irriverente su quel tempo, un viaggio nelle viscere di una città mai raccontata: la mise a nudo, ne rivelò bugie, paure, viltà…” [Claudio Fava e Ninni Bruschetta, L’istruttoria, cit]. Numerose le testimonianze che dipinsero la Catania di quegli anni e lo scenario attorno a cui l’omicidio Fava era maturato.

    La sentenza riporta parte della testimonianza di Italia Amato, legata sentimentalmente a Francesco Mangion, del clan Santapaola, che afferma:
“Nitto si adirava particolarmente quando leggeva gli articoli di Pippo Fava, anzi cercava gli articoli in questione per verificare se il Fava continuava a parlare contro la mafia, contro Santapaola e contro i Cavalieri del Lavoro legati a Nitto”.
Fa notare ancora la sentenza della Corte di Assise d’Appello che:
“la donna provvedeva ad acquistare i giornali a Santapaola, il quale “voleva specificatamente acquistato il giornale “I Siciliani” ed era “molto arrabbiato” con Fava per quello che questi scriveva su detta rivista contro la mafia, contro Santapaola e contro i cavalieri del lavoro legati a Santapaola, il quale di tutto ciò si era molto lamentato con le persone che venivano a trovarlo ed, in particolare, rivolgendosi al nipote Aldo Ercolano, gli diceva: “questo qua ci sta rompendo, questo si sta comportando male….ma voi non li leggete i giornali di quello che c’è scritto”.
Sempre Italia Amato affermerà, facendo tragicamente chiarezza sull’impunità di cui godeva a Catania il boss Santapaola:
“Io me lo sono messo in macchina e siamo partiti per andare a casa mia[…] Sulla strada c'era una macchina che ci scortava[…] Una macchina dei carabinieri[…] Aveva i lampeggianti accesi, ci faceva strada[…] Era per tutte le eventualità[…] Se succedeva qualcosa, un posto di blocco[…] i carabinieri ci avvertivano di girare e di tornare indietro[...] Certo che lo sapevano chi stavo trasportando io[…] Gli spostamenti che Nitto faceva erano già preparati[…] Loro pagavano, signor giudice[…] E quelli, per paura o perché avevano bisogno, obbedivano[…]”.
Si legge inoltre nella sentenza:
“L’ uccisione di Fava realizzò pure qualcosa di gradito negli ambienti di cosa nostra palermitana[…]Francesco Mangion, dopo un brindisi a base di champagne, quest’ultimo ebbe a dire che con la uccisione del giornalista si erano presi due piccioni con una fava; […]emerge chiaramente la prova piena che la uccisione di Giuseppe Fava, avvenuta il 5.1.1984, sia specificamente riconducibile ad un imput preciso ed inequivocabile emesso in tal senso da Benedetto Santapaola al fine di stroncare definitivamente la denuncia forte che il giornalista lanciava all’opinione pubblica dell’intreccio mafia affari politica dalle pagine della rivista I Siciliani”.
In merito poi all’intervista rilasciata il 28 dicembre 1983 da Giuseppe Fava alla trasmissione “Film Story” condotta da Enzo Biagi, durante la quale il giornalista aveva pesantemente parlato del terzo livello della mafia, la sentenza sottolinea:
“La suddetta intervista poi non fu assolutamente la causa scatenante dell’omicidio in quanto essa ha avuto solamente la funzione di accelerare (rendendola assolutamente improcrastinabile) la fase strettamente esecutiva dell’omicidio, che già da tempo era stato concepito, deciso e programmato (sin da quando Benedetto Santapaola era molto arrabbiato e furibondo in casa della Amato a Siracusa a dicembre del 1982 per la lettura della rivista “I Siciliani”, che denunciava all’opinione pubblica l’intreccio mafia politica affari), decisione omicidiaria che era rimasta sempre valida, efficace ed attuale in seno alla consorteria, tanto che tra gli affiliati non si perdeva occasione per boicottare ed insultare Fava; il disprezzo che in seno alla famiglia catanese e palermitana si era diffuso nei confronti di Giuseppe Fava è un dato certo nel processo, avendo di ciò riferito tutti i collaboranti esaminati nel processo (ivi compresi i palermitani Siino e Mutolo) ed Avola in particolare ha detto che Ercolano e D’Agata “già da diverso tempo parlavano della necessità di eliminare il giornalista per i suoi articoli contro la mafia” ed inoltre che D’Agata, ogni qual volta leggeva la rivista “I Siciliani”, diceva che Fava era un “fituso” perché parlava male della mafia e doveva essere eliminato”.
Quella intervista non fu dunque la causa scatenante, ma sicuramente fece accelerare una decisione che maturava già da tempo. In merito Avola dichiarò:
 “Avevo visto Giuseppe Fava in una trasmissione televisiva[…] C’era un giornalista che lo intervistava, mi pare che si chiamava Biagi[...] Ricordo che Fava, mentre parlava, gesticolava[…] e con un dito si toccava sempre la testa. E allora Aldo Ercolano, che era vicino a me, ha detto: gli devo sparare proprio lì[…]”.
    La sentenza affermò categoricamente, quindi, che proprio nell’opera del giornale I Siciliani stava il movente dell’assassinio di Giuseppe Fava.
  […] vanno ricordati i numeri della rivista, versati in atti, con i quali vennero evidenziati l’assassinio del generale Dalla Chiesa, ricollegato subito tra gli altri  anche a Benedetto Santapaola; quei numeri che rivelarono la guerra cruenta combattuta a quell’epoca tra le varie cosche mafiose che si contendevano il predominio su Catania ed il ruolo svolto in quest’ambito da Benedetto Santapaola con il prezzo di un centinaio di uomini uccisi mediamente per ogni anno; quei numeri con i quali, espressis verbis, vennero rappresentati, nella loro realtà triste ed al contempo ignobile, il c.d. “caso Catania” relativo ad una ispezione svolta dal CSM sull’attività della locale Procura della Repubblica, in particolare per il fatto che ai cavalieri del lavoro venivano rilasciate delle certificazioni che consentivano loro di partecipare alle gare di appalto, seppure in alcuni rapporti di polizia fossero emersi degli indizi di reato a loro carico (caso che coinvolse anche alcuni esponenti di spicco della magistratura catanese); la vicenda relativa ai contributi per miliardi assegnati dall’Ispettorato Provinciale dell’Agricoltura, con il beneplacito dell’assessore regionale competente Aleppo ai cavalieri del lavoro (a seguito della quale il detto assessore fu costretto a dimettersi ed i contributi non vennero erogati); l’inchiesta sul sistema bancario siciliano, che chiamava in causa i cavalieri Graci e Costanzo, proprietari di istituti di credito in rapida espansione grazie al rapporto privilegiato con l’Assessore Regionale alle Finanze; l’inchiesta sull’appalto relativo al palazzo dei congressi di Palermo aggiudicato al cavaliere Costanzo, che disvelava il sistema di spartizione degli appalti in Sicilia governato dalla mafia, oltre a tutti gli altri articoli con i quali per esempio si denunciava la sistematica aggiudicazione da parte dei cavalieri del lavoro degli appalti di opere pubbliche per importi miliardari, che i mass media additavano invece come strumento fondamentale ed ineludibile per il mantenimento dei livelli occupazionali in favore dei cittadini catanesi in particolare[…]”.  Sentenza della Corte di Assise di Appello di Catania Sez. 2^, cit.
Il processo, come detto, mise in luce numerosi fatti della Catania di quegli anni e degli inizi degli anni ’90. Furono, ad esempio, messe agli atti 30 fotografie relative ad incontri più o meno pubblici in cui il boss Santapaola si intratteneva con politici: “C’è l’ex deputato regionale Salvatore Lo Turco, ci sono i presidenti della provincia regionale Giacomo Sciuto e Giuseppe Di Stefano, c’è l’ex sindaco Coco”, scriveva Natale Bruno su Il Mediterraneo raccontando l’udienza del 3 gennaio 1996. A riconoscere i politici nelle foto fu chiamato a deporre Claudio Fava. Le foto servirono a provare che le denunce de I Siciliani sulla collusione tra mafia e politica avevano delle basi solide. Il pentito Avola raccontò, come si legge nella sentenza, che nei primi anni novanta si sarebbe dovuto uccidere Claudio Fava nello stesso giorno in cui fu ucciso il padre:
“[…]il quale ha dichiarato all’udienza del 28.11.1996 che nell’anno 1992 aveva “attenzionato il figlio del giornalista, che per ordine di Aldo Ercolano si doveva assassinare[…] perché questo qui cominciava a rompere, qua, là, faceva dibattiti contro la mafia[…]”.
    Le risultanze del processo provocarono nei redattori e nelle persone che furono vicine all’esperienza de I Siciliani, da una parte, soddisfazione per il riconoscimento del movente mafioso legato alla attività giornalistica e per le condanne emesse: l’ergastolo a Santapaola e Ercolano e 9 anni ad Avola; dall’altra, rammarico per le lacune della sentenza che non fece piena luce sugli esecutori materiali e sui cosiddetti mandanti esterni a “Cosa nostra”. Nel registro degli indagati per l’omicidio di Giuseppe Fava fu iscritto il cavaliere del lavoro Gaetano Graci, che però non fu giudicato al processo perché morì prima che esso avesse inizio. Oltre agli indizi che gli inquirenti avevano raccolto a carico di Graci, anche Siino aveva fatto il suo nome:
“[…]Siino racconta dei pessimi giudizi che Graci esprimeva nei confronti di Fava. Siino è un personaggio molto importante perché era soprannominato il ministro dei lavori pubblici della mafia, era cioè il legame tra la mafia palermitana e gli imprenditori siciliani[…]”.
Avvocato Fabio Tita, intervista cit.
    Gli altri cavalieri che al pari di Graci furono protagonisti in negativo della Catania di quegli anni non furono iscritti nel registro degli indagati anche perché Costanzo e Finocchiaro, quando fu istruito il processo, erano già deceduti, mentre Rendo fu chiamato a testimoniare senza però che gli fosse contestato nessun reato in merito alla morte di Giuseppe Fava. Durante la sua testimonianza ebbe modo di lamentarsi del trattamento riservatogli dalla rivista I Siciliani.
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