Sindrome Catania è quel tale stato d’animo per il quale, da un anno a questa parte, ovunque in Italia il siciliano viene innanzitutto ritenuto catanese. Ciò perché qualunque cosa sia accaduta in questi ultimi tempi in Sicilia, essa è accaduta a Catania o l’hanno fatta i catanesi. Sono catanesi i cavalieri del lavoro che hanno fatto impazzire mafiologi ed economisti di mezza Europa, che gestiscono ognuno centinaia di miliardi, che costruiscono in ogni parte della Sicilia e dell’Europa, dell’Africa, dell’America del Sud, autostrade, dighe, ponti, grattacieli, chiese, centrali nucleari, chiodi e locomotive. E’ catanese l’uomo che viene braccato sotto l’accusa di aver organizzato e personalmente eseguito con un Kalashnikoff l’assassinio del generale dalla Chiesa. E’ catanese la Procura generale sottoposta a inchiesta del consiglio superiore della magistratura per accertare se clamorose indagini su evasioni fiscali e collusioni mafiose abbiano subito colpevoli ritardi o siano state addirittura imboscate. Tutto sommato è anche catanese la cooperativa di giornalisti che realizza questo giornale, unica cooperativa giornalistica in tutta Italia che possieda i suoi strumenti editoriali, sia proprietaria del giornale che realizza e non abbia alle spalle alcun potere politico e finanziario che possa deviarla dalla verità.
[G. Fava, Sindrome Catania, I Siciliani, Aprile 1983]
giovedì 24 dicembre 2009
Sindrome Catania
mercoledì 23 dicembre 2009
La giustizia
Un tema che occupò uno spazio notevole su I Siciliani fu quello della Giustizia. Tema vario che si intreccia con il già citato troncone tematico della mafia e dei suoi rapporti con la politica e il mondo economico-imprenditoriale.
Alla fine del 1982 era scoppiato il “Caso Catania”. Il Consiglio superiore della magistratura aveva avviato una inchiesta sulle strane operazioni che avvenivano alla Procura di Catania: ritardi, omissioni, retrodatazioni a penna e insabbiamenti di alcune inchieste della Guardia di Finanza o di altre Procure che contestavano reati importanti all’imprenditoria catanese, principalmente nelle figure dei più volte citati cavalieri del lavoro. Era stato il prof. Giuseppe D’Urso, docente universitario e presidente della sezione siciliana dell’Inu (l’Istituto Nazionale di Urbanistica), ad inviare dei voluminosi dossier informativi al CSM. Il giornale durante il 1983 dedicò molto spazio alla vicenda, aggiornando mensilmente i lettori sugli sviluppi dell’inchiesta.
Erano il procuratore capo aggiunto Giulio Cesare Di Natale e il sostituto procuratore Aldo Grassi, i principali indiziati dell’“Affaire Catania”.
Un giorno di febbraio il giudice istruttore di Palermo, Rocco Chinnici, si trova a Siracusa, per parlare di mafia con gli studenti. Il giornalista Lillo Venezia lo avvicina per intervistarlo, anche a proposito dell’omicidio di Giacomo Ciaccio Montalto, giudice trapanese, ferocemente ucciso nel gennaio del 1983:
La figura di Chinnici ricorrerà durante tutto l’anno 1983 negli articoli de I Siciliani. È l’anno dell’ennesima strage di mafia, in via Pipitone Federico a Palermo, dove una 126 verde, imbottita di tritolo aspetta sotto casa il giudice. Morirono insieme a lui due uomini della scorta e il portiere del palazzo, mentre rimasero ferite più di venti persone. Ci fu di nuovo un funerale di Stato e molte domande e sul ruolo del giudice Chinnici, un uomo lasciato solo anche da alcuni colleghi, secondo i diari ritrovati successivamente, e sulla banca dati sulla mafia da lui auspicata. Intanto un altro pezzo delle istituzioni dello Stato era scomparso.
Giuseppe Fava nel Settembre del 1983 scrisse un malinconico articolo, a tratti tragicamente ironico, sui funerali di Stato e sulla morte di un altro giudice attivo per la lotta alla mafia:
In pochi anni, a Palermo e a Trapani erano stati uccisi sette magistrati. A Catania, nessuno. È la prova che qui non c’è mafia, ripeteva la stampa di città. La lettura di quel paradosso purtroppo era diversa. Molto più semplice e inquietante: la mafia, a Catania, non aveva mai avuto bisogno di uccidere un giudice”.Il Caso Catania
[Claudio Fava, La mafia comanda a Catania]
Alla fine del 1982 era scoppiato il “Caso Catania”. Il Consiglio superiore della magistratura aveva avviato una inchiesta sulle strane operazioni che avvenivano alla Procura di Catania: ritardi, omissioni, retrodatazioni a penna e insabbiamenti di alcune inchieste della Guardia di Finanza o di altre Procure che contestavano reati importanti all’imprenditoria catanese, principalmente nelle figure dei più volte citati cavalieri del lavoro. Era stato il prof. Giuseppe D’Urso, docente universitario e presidente della sezione siciliana dell’Inu (l’Istituto Nazionale di Urbanistica), ad inviare dei voluminosi dossier informativi al CSM. Il giornale durante il 1983 dedicò molto spazio alla vicenda, aggiornando mensilmente i lettori sugli sviluppi dell’inchiesta.
Erano il procuratore capo aggiunto Giulio Cesare Di Natale e il sostituto procuratore Aldo Grassi, i principali indiziati dell’“Affaire Catania”.
Mentre a Palazzo dei Marescialli la commissione del CSM interrogava Di Natale, a Catania il sostituto Procuratore D’Agata spediva 56 comunicazioni giudiziarie per altrettanti imprenditori e faccendieri siciliani coinvolti in un colossale giro di fatture false e di frodi fiscali. Probabilmente solo una pura coincidenza che tuttavia, data la situazione di emergenza, a qualcuno (forse agli stessi magistrati del Consiglio superiore) dovette apparire bizzarra. Santo cielo: il rapporto della Guardia di Finanza era stato lasciato in un cassetto, negli uffici della Procura, per molti mesi; e improvvisamente, mentre a Roma si sceglieva il capo della Procura catanese, questo fascicolo delle Fiamme Gialle tornava a galla e partivano 56 comunicazioni giudiziarie […]”I fatti contestati ai due magistrati catanesi erano gravi: principalmente un caso di certificati di carichi pendenti retrodatati e la storia di inchieste inviate dalla Guardia di Finanza su noti politici e imprenditori alla Procura di Catania retrocesse ad “atti relativi”.
[Claudio Fava, La Procura di Catania può saltare in aria, I Siciliani, Febbraio 1983]
I fatti: in data 14 settembre 1982 la Procura di Agrigento trasmette alla Procura della Repubblica di Catania un’inchiesta che indica, come possibili responsabili per associazione per delinquere, numerosi e noti imprenditori economici. Si tratta della nota vicenda della truffa IVA per la quale nel mese di dicembre 1982 […] verranno emesse circa 100 comunicazioni giudiziarie. A seguito della trasmissione di questa inchiesta viene aperto un procedimento e in data 14 settembre 1982 nei cartellini personali degli interessati viene iscritto il procedimento a carico. Dal documento del consigliere Giovanni Martone presentato nel corso della seduta del 27 ottobre riportiamo testualmente: «A seguito di tale iscrizione e della conseguente pendenza di procedimento penale, un’originaria richiesta del 19 settembre 1982 di 20 copie di certificato di carichi pendenti relativi a un noto imprenditore (Carmelo Costanzo n.d.r.) è stata modificata con la precisazione della data (12 settembre 1982) finale del periodo al quale doveva riferirsi la certificazione. I relativi certificati (nonché altre 20 copie nei giorni successivi e altre copie ad altri operatori economici) sono stati rilasciati dopo una consultazione del Segretario capo con il dott. Aldo Grassi preventivamente informato che la richiesta riguardava “quelli del procedimento...”». Come noto per partecipare ad una gara d’appalto l’imprenditore non deve avere carichi pendenti. Da qui l’interesse degli imprenditori a non far risultare quei procedimenti pendenti. Una richiesta di certificati presentata in una data, sarebbe stata dunque (secondo l’accusa) retrodatata per evitare che quel procedimento aperto dalla Procura di Agrigento e trasmesso a Catania risultasse nei cartellini personali, e tutto ciò, secondo le risultanze dell’inchiesta della prima commissione disciplinare del CSM, sarebbe avvenuto nella conoscenza di un magistrato della Procura.”
[C.Fava , A.Roccuzzo, Giustizia è sfatta, I Siciliani, Novembre 1983]
Il rapporto della Finanza, con le sue incredibili ipotesi di reato, con il suo lungo, inquietante elenco di indiziati, rimase lettera morta negli uffici della Procura di Catania. Anzi (riferiamo sempre i termini delle denunce) accadde una cosa quasi grottesca: il dossier, nel quale si indicavano reati precisi sulla scorta di elementi probatori altrettanto inequivocabili, venne infilato nel cosiddetto fascicolo degli «Atti relativi». Il che, per un procedimento penale, equivale alla morte civile. Sotto tale voce, negli archivi giudiziari, vengono depositati i fascicoli che si riferiscono ad inchieste lunghe, generiche, non riferibili a ipotesi di reato precise (un’inchiesta, ad esempio, sulla prostituzione nella città di Palermo, oppure un’inchiesta sul contrabbando di sigarette nel golfo di Catania...). Inchieste che richiedono un’attività istruttoria lenta, meticolosa, dalla quale dovranno emergere - col tempo - i nomi degli indiziati e i reati ipotizzabili. Non era certo questo il caso del rapporto inviato ai magistrati catanesi dalla Finanza di Agrigento: la sua destinazione agli “Atti Relativi” fu una «retrocessione» immotivata (un insabbiamento in piena regola, suggeriscono spietatamente gli esposti spediti al CSM)”.L’uccisione del giudice Chinnici
[C. Fava, La procura di Catania...]
Un giorno di febbraio il giudice istruttore di Palermo, Rocco Chinnici, si trova a Siracusa, per parlare di mafia con gli studenti. Il giornalista Lillo Venezia lo avvicina per intervistarlo, anche a proposito dell’omicidio di Giacomo Ciaccio Montalto, giudice trapanese, ferocemente ucciso nel gennaio del 1983:
Ecco, giudice, ma secondo lei che ogni giorno si ritrova dinnanzi questa forza oscura e crudele che sembra onnipossente nella nostra società, cos’è realmente la mafia?
«Potrei darle un semplice giudizio storico, e dirle che da 150 anni ci trasciniamo questo fenomeno mortale nato fondamentalmente dalla necessità di difendere comunque la proprietà, e dunque anche il privilegio, contro qualsiasi stravolgimento della società, dal banditismo, alle scorrerie dei briganti, alla miseria dei contadini che si trasformavano in predoni, alla stessa evoluzione della società. La mafia è stata sempre reazione, conservazione, difesa e quindi accumulazione della ricchezza. Prima era il feudo da difendere, ora sono i grandi appalti pubblici, i mercati più opulenti, i contrabbandi che percorrono il mondo e amministrano migliaia di miliardi. La mafia è dunque tragica, forsennata, crudele vocazione alla ricchezza.»
E in questa definizione, in questa immagine è possibile inserire l’ipotesi di un connubio costante fra mafia e politica?
«La mafia stessa è un modo di fare politica mediante la violenza, è fatale quindi che cerchi una complicità, un riscontro, una alleanza con la politica pura, cioè praticamente con il potere […]
Ecco, torniamo alla legge La Torre. Lei ritiene veramente che essa abbia questa straordinaria validità che molti magistrati le attribuiscono?Il giudice Chinnici terminava la sua intervista con un messaggio chiaro alla mafia: “Noi giudici siciliani non ci arrenderemo mai. Non avremo mai rassegnazione o paura. Per ognuno che cade ce ne sono altri dieci disposti a proseguire con maggiore impegno, coraggio, determinazione”. E intanto Venezia lo incalzava, “riceve molte minacce di morte?”, e lui non rispondeva:
«Senza dubbio! La legge antimafia recentemente approvata è certamente uno strumento di eccezionale validità, soprattutto se utilizzata con vigore, lucidità, intelligenza e implacabile decisione. Essa permette infatti l’uso di mezzi e strumenti che possono colpire il mafioso nel cuore stesso della sua attività: le indagini nelle banche, il controllo sugli appalti e sub-appalti.[…] Ma onestamente la sola legge La Torre non basta a contenere il fenomeno mafioso e aggredirlo in tutte le sue manifestazioni: abbiamo bisogno di mezzi che non siano soltanto giuridici, ma debbono essere anche strumenti concreti di lotta, intendo dire l’aumento dell’organico nelle varie sedi giudiziarie, l’aumento degli stessi organici di polizia giudiziaria attualmente insufficienti a far fronte alle necessità. Basti dire che gli organici giudiziari di Palermo sono gli stessi di quindici anni fa al cospetto di una criminalità organizzata che ha moltiplicato invece la sua potenza. Infine è necessario istituire la banca dei dati, ed è questa una drammatica necessità che abbiamo rappresentato anche al Capo dello Stato proprio in occasione dei funerali del povero Ciaccio Montalto. Oramai la mafia ha ramificazioni in tutta Italia, conseguenza di quella sciagurata politica del confino, che non solo non eliminava il mafioso dalla società, ma lo metteva in condizione di inquinare un territorio fin’allora sano della nazione. Spedire un mafioso in Toscana, o Piemonte, o Veneto e pensare che se ne stesse quieto a fare il bravo cittadino fu una illusione micidiale. Il mafioso resta tale in qualsiasi tempo e contrada e dovunque egli si trovi continuerà a esercitare la sua attività criminale. Se non ha alleanze, se le trova, se non ha complici li cerca. Inquina, ammala, contagia. Con l’istituto del confino abbiamo esportato la mafia in tutto il Paese e quindi esiste la necessità di uno strumento più moderno, appunto la banca dei dati, che metta in condizione di sapere istantaneamente chi sono i personaggi implicati nei vari delitti mafiosi e quali eventuali collegamenti possano esserci fra di loro [Lillo Venezia, La rivolta dei giudici siciliani, I Siciliani, Marzo 1983].
L’interlocutore sorride e per un attimo resta a guardarci con curiosità come se noi avessimo posto una domanda per scherzo. Sembra quasi voglia capire fin dove la nostra domanda possa essere ritenuta candida e non ci sia invece una punta di impercettibile sarcasmo. Continua a sorridere, però amabilmente. Fa uno strano gesto interrogativo a sua volta e risponde con una domanda: «Lei che ne pensa?».Chinnici era considerato un giudice “galantuomo”. Aveva assunto il proprio incarico all’indomani di un’altra uccisione di mafia, quella di Cesare Terranova, ucciso nel 1979. Un lavoro di quattro anni quello di Chinnici, che chiedeva, come i predecessori, nuovi mezzi, altri uomini e strumenti legislativi più efficaci. Ma non era solo un giudice. La sua lotta alla mafia era anche culturale; accettava di buon grado di essere testimone sociale della sensibilizzazione, nelle assemblee delle scuole o ai dibattiti culturali antimafia.
La figura di Chinnici ricorrerà durante tutto l’anno 1983 negli articoli de I Siciliani. È l’anno dell’ennesima strage di mafia, in via Pipitone Federico a Palermo, dove una 126 verde, imbottita di tritolo aspetta sotto casa il giudice. Morirono insieme a lui due uomini della scorta e il portiere del palazzo, mentre rimasero ferite più di venti persone. Ci fu di nuovo un funerale di Stato e molte domande e sul ruolo del giudice Chinnici, un uomo lasciato solo anche da alcuni colleghi, secondo i diari ritrovati successivamente, e sulla banca dati sulla mafia da lui auspicata. Intanto un altro pezzo delle istituzioni dello Stato era scomparso.
Giuseppe Fava nel Settembre del 1983 scrisse un malinconico articolo, a tratti tragicamente ironico, sui funerali di Stato e sulla morte di un altro giudice attivo per la lotta alla mafia:
[…] Rocco Chinnici, assassinato in quel modo barbaro, coinvolgendo nella strage decine di vittime innocenti, persino bambini: una ferocia senza precedenti nella pur ferocissima storia mafiosa, poiché anche il giudice Rocco Chinnici doveva assolutamente morire, e doveva morire perché anch’egli stava per strappare il velo agli inviolabili santuari, identificare (ecco il punto) non soltanto coloro i quali eseguono gli assassinii, e coloro che ne sono i mandanti, i grandi strateghi degli affari mafiosi, ma soprattutto coloro i quali, da imperscrutabili cattedre politiche, finanziarie, forse anche governative, assicurano invulnerabilità.Quei funerali di Stato ormai si somigliavano tutti: arrivava Pertini “trascinato a Palermo, sempre più vecchio, sempre più vecchio, sempre più stravolto”, poi “la rovente omelia di Pappalardo” e la gente comune “che piange e applaude quelle misere bare con le quali uomini coraggiosi scompaiono”. Al funerale di Chinnici prendeva posto anche il presidente del Consiglio Amintore Fanfani, a cui si era rivolto il sindaco Pasquale Almerico prima di essere trucidato.
Ecco: l’assassinio di Chinnici ha un significato che, per esemplare crudeltà, scavalca tutti gli altri delitti precedenti. Significa infatti: tu magistrato coraggioso e onesto, fai pure il tuo lavoro, arresta, imprigiona, condanna coloro che uccidono, avvelenano il mondo con la droga, guadagnano migliaia di miliardi e, se ne sei capace, anche coloro che li comandano, i mandanti, gli strateghi, ma non andare al di là di un passo, non cercare di capire e conoscere coloro i quali li proteggono ed assicurano loro inviolabile potenza. Non un passo di più! C’è un funerale di Stato pronto per te!
[Giuseppe Fava, Funerali di Stato, avanti c’è posto!, I Siciliani, Settembre 1983]
martedì 22 dicembre 2009
I missili di Comiso
Un’altra delle battaglie condotte dal gruppo de I Siciliani fu quella contro l’installazione dei missili Cruise nella base Nato di Comiso. La rivista si schierò con il movimento pacifista che in quegli anni si mobilitava affinché i Cruise non fossero installati.
Nel consueto modo di lavorare furono condotte inchieste e reportage: 16 servizi firmati quasi tutti da Giuseppe Fava, Riccardo Orioles e Miki Gambino. Si rivelò il fatto che la mafia aveva acquistato e continuava ad acquistare terreni intorno alla zona della base per poter poi rivenderli agli americani per future costruzioni che sarebbero sorte intorno alla base.
La battaglia sui missili di Comiso fu però persa e dal giornale si levò un’accusa amara verso la gran parte dell’opinione pubblica che era “rimasta inerte e sonnolenta dinnanzi all’evento”.
“Un giorno accadrà che i nostri figli o nipoti che ancora debbono nascere ci guarderanno negli occhi con un sorriso sprezzante, e ci chiederanno: voi dove eravate quando fu deciso di costruire la base dei missili a Comiso e condannarci quindi a una vita provvisoria. Come vi siete permessi di appropriarvi anche del nostro destino umano prima ancora che fossimo concepiti. Un essere umano afflitto da un'atroce inguaribile deformità, il quale apprende che il padre pur sapendo che sarebbe stato malato, deforme, infelice, volle tuttavia egualmente farlo nascere, ha il diritto di sputare in faccia al padre”.Erano ancora gli anni della guerra fredda, il muro di Berlino non era caduto: da una parte il blocco occidentale, dall’altra quello sovietico e, paradossalmente, al centro l’Italia e la Sicilia. Nel cuore della Sicilia, a Comiso, in provincia di Ragusa, furono istallati i missili Cruise, senza chiedere il parere dei siciliani, in una delle tante basi Nato sparse nell’isola. Si creò un forte movimento e da tutta Europa arrivarono a Comiso i pacifisti. La rivista si schierò con loro.
[Giuseppe Fava, Ti la scio in eredità i missili di Comiso, I Siciliani, n.1 gennaio 1983]
Nel consueto modo di lavorare furono condotte inchieste e reportage: 16 servizi firmati quasi tutti da Giuseppe Fava, Riccardo Orioles e Miki Gambino. Si rivelò il fatto che la mafia aveva acquistato e continuava ad acquistare terreni intorno alla zona della base per poter poi rivenderli agli americani per future costruzioni che sarebbero sorte intorno alla base.
Ci sono già più di quattromila ettari di ottimo terreno - tremilacinquecento ad Acate, dieci chilometri da Comiso, e cinquecento a Vittoria - in mano ai «palermitani», che si son messi a comprare fin dal '79. «Palermitani», si noti bene, non vuol necessariamente dire mafiosi; e infatti: «brave persone, tutte bravissime persone» teneva a dichiarare il sindaco di Acate, Salemi. Tuttavia, almeno qualcuno di loro, se non altro per via di parentela, una qualche idea di che cos'è la mafia potrebbe essersela pur fatta. Per esempio tale Giovanni Gambino, venuto qui nella lontana giovinezza (dodici anni di soggiorno obbligato) e rimastovi poi come rispettabile proprietario di una grossa fattoria in contrada. Poggiodiferro di Acate: suo cugino era don «Joe» Gambino, notissimo a Brooklin e dintorni e non precisamente per opere di bene. Sulla faccenda, adesso, stanno indagando da un canto il commissario all'Antimafia De Francesco e dall'altro la Procura di Palermo. Indagini del tutto fuor di luogo secondo il segretario democristiano Modica, persuaso che mafia non ce n'è e non ce ne potrà mai essere; indagini sante e benedette secondo il vecchio leader pacifista Cagnes, che già un anno fa aveva denunciato - ovviamente, inascoltato - il pericolo di un'invasione mafiosa a seguito di quella militare.Oltre a questo fu denunciato il fatto che strategie militari prevedevano che altre numerose testate fossero dislocate su tutto il territorio siciliano e che in caso di attacco “nemico” i missili di Comiso fossero dislocati in altre zone più nascoste aumentando così la superficie delle zone a rischio di attacco nucleare.
[Riccardo Orioles, Referenziato ariano cercansi per guerra nucleare, n.6 giugno 1983]
La verità è che gli alti comandi - e naturalmente anche alcuni politici italiani di vertice - sanno che la situazione è ben più terrificante. I missili atomici in dotazione ufficiale alla base di Comiso saranno dislocati in tutta la Sicilia, sicché in caso di un conflitto, l'aggressore non colpirà soltanto l'impianto di Comiso, ma sarà costretto a colpire tutta la Sicilia, ogni luogo, ogni paese, bosco, profonda vallata, montagna dove i missili atomici potrebbero essere nascosti. La previsione è logica come un teorema: cinque, sette, dieci testate atomiche si abbatterebbero su tutta l'isola per distruggere sicuramente il potenziale di offesa nucleare. Non una città o una provincia, o territorio più remoto potrebbe sfuggire alla tragica successione di lampi atomici. L'ipotesi è di una distruzione totale per milioni di siciliani. Questo va garbatamente spiegato anche a catanesi, palermitani, trapanesi i quali magari sulla questione avranno avuto un maligno, spontaneo pensiero: tanto Comiso è nel centro degli Iblei.La rivista contribuì alla riflessione critica sull’installazione: illustrò con servizi, tabelle, interviste, grafici la potenza e le caratteristiche tecniche dei missili Cruise e di altre eventuali testate atomiche [Miki Gambino, Né acqua né turisti solo cannoni, n. 3 marzo 1983] ed evidenziò la pericolosità di una base di quelle dimensioni nel cuore della Sicilia; diede voce ad intellettuali che erano contrari all’installazione; raccontò e fotografò il movimento pacifista, il suo look, il rapporto con i cittadini di Comiso:
[Giuseppe Fava, 5 milioni di siciliani bruceranno in un lampo, n. 3 marzo 1983]
Sacchi a pelo fra l’erba alta, tende, mucchi di cartacce e lattine vuote rigorosamente raccolte in un canto dello spiazzo, e due bambine che osservavano con curiosità i poliziotti e i pacifisti. In fondo a destra, vicino al muro di cinta dell’aeroporto, c’era una ventina di giovani, seduti in circolo, che mangiavano mele e parlavano a bassa voce. Il milanese barbuto e scalzo che ci accompagnava diceva che erano quelli del coordinamento internazionale antimilitarista; stavano discutendo l’organizzazione della prossima marcia europea per la pace, in Sicilia a primavera. Mentre uno parlava, due ragazze facevano il giro del circolo, traducendo nelle varie lingue: un sorriso di comprensione passava così dall’una all’altra barba mentre esse andavano da un orecchio all’altro”.Il mensile testimoniò inoltre i giorni di festa e le manganellate; dipinse le cosiddette “donne di Comiso”, le donne pacifiste, siciliane e non, che conducevano le proteste, e infine condusse delle inchieste anche sulle altre basi satelliti e i centri radar che in Sicilia in quegli anni proliferavano.
[M.Gambino, R.Orioles, Quelli di Comiso, I Siciliani, Febbraio 1983]
La battaglia sui missili di Comiso fu però persa e dal giornale si levò un’accusa amara verso la gran parte dell’opinione pubblica che era “rimasta inerte e sonnolenta dinnanzi all’evento”.
L’estate che volge al termine è infatti l’ultima estate che i siciliani vivono senza i missili atomici, cioè ancora con la speranza che, nel caso di guerra fra le grandi potenze, la Sicilia possa essere esclusa dai bersagli nucleari. La prossima estate sarà diversa: nella coscienza di tutti i siciliani, ricchi o poveri, geni o imbecilli, onest’uomini o lazzaroni, ci sarà la certezza dell’olocausto atomico in caso di conflitto. […]La prossima estate i bambini che ora hanno cinque, otto, dieci anni, acquisiranno l’incontestabile diritto, fra quindici, venti o trent’anni, a sputare in faccia ai loro padri, chiedendogli: e Tu, quando decisero di installare i missili a Comiso e quindi - per qualsiasi futura guerra mondiale - di offrirci al sicuro sacrificio atomico, Tu dov’eri? […] Questa è la cronaca e quindi il documento di una sconfitta! E’ inutile che stiamo ancora qui ad ingannarci con cose vecchie e inutili: il generoso slancio delle popolazioni siciliane, la passione di migliaia di giovani accorsi da tutta Italia, la coscienza civile della gente di Comiso, le veementi polemiche in Parlamento, ed altre inutili e sapute cose. Se vogliamo valutare la tragica vastità della sconfitta, bisogna avere l’onesto coraggio di guardare le cose come veramente accadono. Nella realtà l’opinione pubblica siciliana, quella erede dei Vespri e dei picciotti garibaldini, è rimasta inerte e sonnolenta dinnanzi all’evento. […] La buona gente di Comiso ha accettato i missili in casa. Taluni sono insorti ma sono stati sbeffeggiati, se avevano un partito spesso rinnegati dal loro stesso partito. I più hanno pensato a quanto sarebbe cresciuta di valore la terra, e quali potevano essere le aree fabbricabili, e quanti alberghi, motel, ristoranti, macchinette di war-game, bettole, botteghe di pizzicagnoli, appalti di trasporti, servizi, pulizie, potessero abbisognare agli americani, e quale dunque l’affare più lucroso, e come farsi pagare in dollari, qualcuno certo avrà persino riflettuto che l’ottanta per cento degli americani saranno giovani, e il cinquanta per cento scapoli, e segretamente sta già radunando ragazze per case d’appuntamento.I giornalisti non mancarono in seguito anche di raccontare l’arrivo dei missili in Sicilia e la loro dislocazione nelle Basi Nato regionali:
[Giuseppe Fava, L’ultima estate senza i missili, I Siciliani, Settembre 1983]
A proposito di Cruise, finalmente sono arrivati i primi, sistemati provvisoriamente in quel luogo notoriamente lontano da centri abitati che è la base USA di Sigonella, a 15 chilometri da Catania, a 10 da diversi altri paesi della zona […]; l’unico punto oscuro nella storia di questi “sigari” micidiali è quello della “doppia chiave”: gli americani volevano darcela, ma noi per risparmiare l’abbiamo rifiutata, cosicché quando verrà l’alba fatale forse nemmeno ci sveglieranno per avvertire.La Sicilia si trasformava in uno dei cardini della struttura militare della Nato e i siciliani sembravano non interessarsene:
[Miki Gambino, I missili in città, I Siciliani, Novembre 1983]
I siciliani sembrano non accorgersene, o fanno finta di niente. Un atteggiamento che amareggia e induce a delle riflessioni: essere siciliani non è una condizione solo geografica, ma anche dello spirito: essere nati in Sicilia, scegliere di restarvi, pone di fronte ad altre scelte, difficili ma inderogabili.
[Miki Gambino, I missili in città, I Siciliani, Novembre 1983]
lunedì 21 dicembre 2009
Il sogno fallito dell’industria in Sicilia
La Sicilia è stata fondamentalmente terra di latifondi, di contadini, di braccianti. Nel dopoguerra e negli anni del boom, la Sicilia ha però vissuto un “sogno”: l’industria.
La posizione del giornale fu netta: un atto di accusa che si sintetizza nelle parole ironiche e amare di G. Fava:
Il bracciante sogna di diventare operaio, imparare il segreto di quelle macchine, avere un buon salario. Il padrone della terra sogna un giorno di essere il padrone di quelle macchine. Padroni e servi del Sud. Entrambi contadini ed entrambi storicamente vinti e nell’imminenza di un’altra sconfitta, sognano l’industria[…]”.I Siciliani raccontò la nascita di questo sogno e la sua morte. In particolare fu condotta un’indagine sull’installazione dell’industria petrolchimica in Sicilia. Quattro grossi servizi, usciti nei numeri di gennaio, marzo, giugno e luglio, curati da Giuseppe Fava, Miki Gambino, Claudio Fava, Giovanna Quasimodo, analizzarono i retroscena della nascita dell’ASI, gli interessi dei gruppi petroliferi del Nord e dell’imprenditoria locale, le corruzioni politiche, le conseguenze da un punto di vista economico, sociale ed umano di quello che fu vissuto da molti come il sogno di emancipazione dalla terra, il passaporto per la modernità, la possibilità di un posto di lavoro, anch’esso faticoso certamente, ma molto meno pesante di quello agricolo e, soprattutto, sicuro.
[Giuseppe Fava, Industria, il fallito sogno siciliano, n. 5 maggio 1983]
La posizione del giornale fu netta: un atto di accusa che si sintetizza nelle parole ironiche e amare di G. Fava:
“Così la Sicilia divenne la prima potenza industriale petrolchimica del Mediterraneo. Soltanto quindicimila addetti su una popolazione di cinque milioni di abitanti. Ecologicamente un delitto. Politicamente un bluff. Storicamente una canagliata”Nei loro servizi i redattori de I Siciliani misero sotto accusa la miopia colpevole di questa scelta che considerarono non solo lontana dal tradizionale tessuto economico siciliano e velleitaria per un territorio privo di infrastrutture, ma anche poco giustificabile all’interno della produzione petrolchimica nazionale ed europea:
“In realtà si sapeva che […] dieci quindici anni ancora e i paesi produttori petrolio[…] avrebbero costruito immense raffinerie accanto ai campi petroliferi e in quel momento avrebbero strangolato l’Europa. Forse anche i petrolieri italiani sapevano, ma pur solo per dieci o quindici anni, il polo petrolchimico siciliano permetteva egualmente favolosi guadagni”.Denunciarono gli interessi degli industriali che “accorrevano dal Nord a cercare spazio e denaro pubblico per imprese che altrove non avrebbero potuto mai realizzare”, e l’avidità degli imprenditori e dei politici locali, le speculazioni e le corruzioni, le mazzette facili:
“Oltre due miliardi di lire con i quali i Cameli avrebbero oliato i meccanismi della burocrazia politica siciliana. La fetta più grossa sarebbe toccata alla segreteria nazionale della DC (un miliardo tondo), 65 milioni li avrebbe intascati invece l’on Gioia, più di ottanta la presidenza della regione, e così via: 26 i beneficiari indicati nel tabulato tra politici, funzionari, partiti, associazioni, fino alle ottocentomilalire, per “spese varie”. Stando a quella velina tutti avrebbero avuto la loro parte, anche i socialisti (100 milioni) anche il PCI (30 milioni), perfino il PSIUP che, con i trenta milioni ricevuti, starebbe a dimostrare come la corruzione sia un’arte ben più sofisticata della politica”.
Filippo e Sebastiano Cameli, armatori genovesi, nel 1967 acquistarono la concessione dell’Isab (Industria Siciliana di Asfalti e Bitumi) divenendone presidente e vicepresidente. La velina citata riporta le informazioni in possesso dei magistrati genovesi che allora indagavano sullo “scandalo petroli”, tratte da un elenco del maggio 1971 rinvenuto nei libri mastri dell’Isab, in cui erano indicate tutte le “spese extra” che sarebbero state pagate dall’Isab per ottenere in tempi rapidi i nulla-osta necessari per costruire la raffineria di Melilli.In un lungo e articolato servizio di 16 pagine sul primo numero della rivista, Miki Gambino e Claudio Fava denunciarono l’inquinamento, la devastazione di trenta chilometri di costa tra Augusta e Siracusa; raccontarono di un piccolo paese, Marina di Melilli, in provincia di Siracusa, raso al suolo per far posto alle industrie [Miki Gambino e Claudio Fava, Ed un giorno decisero: distruggiamo il paese, n. 1 gennaio 1983.]; raccontarono la storia di questo paese fantasma e di quelle quattro case rimaste in piedi per volontà dei proprietari che avevano deciso di non venderle allo Stato; denunciarono le malformazioni nei neonati, i decessi per tumori che erano aumentati insieme ai veleni delle raffinerie:
[Claudio Fava, Tecnica della corruzione al Sud, n. 3 marzo 1983]
Le cifre che vennero fuori erano terrificanti: nel 1980, 83 aborti spontanei e 12 nati malformati su 814 parti; altri 5 malformati nei primi mesi dell’81. […]Ad Augusta nel 1950 i morti per cancro furono l’8% sul totale dei decessi; nel 1980 la percentuale era arrivata al 29,9% cioè quasi il doppio della media nazionale, che è del 16%.[…] su cento malati di tumore, settanta sono di sesso maschile, quasi sempre operai nelle fabbriche della zona industriale”.Infine, nell’articolo Industria, sogno fallito del Sud, G. Fava mise a nudo l’amara eredità di quel “sogno”:
[Miki Gambino e Claudio Fava, E la città partorì i mostri, n.1 gennaio 1983]
“Tutto il grande sogno dell’industria siciliana finisce lì, in quelle cento, duecento ciminiere metalliche che sprigionano fuochi velenosi, notte e giorno. Il territorio che cominciava a morire, il mare di piombo senza più pesci, gli esseri umani che cominciavano a morire cinque o sei anni prima di quanto il destino e la costituzione fisica potesse loro consentire. Tutto il resto fu velleitarismo, spreco di intelligenza, dilapidazione di migliaia di miliardi e di speranze”.
domenica 20 dicembre 2009
Sport, Cultura, Spettacolo e altro
Ma il giornale non si occupò solo di temi “pesanti”. Ampio spazio ebbe lo sport. Il calcio ovviamente, ma non solo, anche il rugby, la pallavolo e la boxe. Sono gli anni del Calcio Catania in serie A, gli anni del presidente Angelo Massimino, muratore prima, costruttore poi, diventato infine presidente del Calcio Catania [Giuseppe Fava, In serie A il Catania sarà solo contro tutti, n.8 settembre 1983]. Viene raccontata la storia del “Terranova” di Gela, una squadra di provincia, che ha numerosi stranieri, un fenomeno strano per una squadra povera. Ambiente generoso che riesce a convincere i suoi “stranieri”a non andare via, a farli rimanere un altro anno ancora [Rosario Lanza e Tiziana Pizzo, Solitudine e sogno dell’indio in Sicilia, in I SICILIANI, n. 4 aprile 1983]. Ma ciò che soprattutto viene messo in rilievo nei servizi sullo sport è il ruolo sociale che esso svolge. Fabio Tracuzzi dedicò un lungo articolo all’ Amatori Catania: “C’è una squadra di rugby nata vicino all’aeroporto, nel «quartiere lager» di Santa Maria Goretti, una squadra che toglie ragazzi dalla strada, e milita nella serie A […]” [Fabio Tracuzzi, Il rugby redime i ragazzi violenti del ghetto, in I SICILIANI, n. 2 febbraio 1983].
Tiziana Pizzo racconta che a Giarratana la squadra di pallavolo femminile riesce a vincere contro la prima in classifica, la pallavolo diventa l’attrazione del paese e le tribune si riempiono ad ogni partita: “[…] l’intero paese partecipa in maniera diversa, anche perché comincia a non trattarsi più di una stramberia o di un semplice passatempo[…]” [Tiziana Pizzo, Rivoluzione di sei ragazze senza scialle, n. 2 febbraio 1983].
L’emancipazione della donna in Sicilia passa anche attraverso queste piccole grandi imprese.
La rivista racconta il lato umano e sociale dello sport. Uno sport visto come momento di emancipazione e di aggregazione, momento di rivalsa sociale per le classe più povere.
Oltre allo sport, a dare respiro al giornale furono le pagine dedicate alla cultura: gli interventi critici di scrittori come Addamo e Vincenzo Consolo; i racconti di Giuseppe
Fava firmati spesso con vari pseudonimi; ma anche le rubriche di teatro, cinema, musica, arte curate da vari redattori, tra cui Gaetano Caponetto, Elena Brancati, Nello Pappalardo, Giovanni Iozzia, Fortunato Grosso.
In ogni numero era inoltre presente un servizio di circa due pagine, attentissimo ai problemi dell’ecologia, curato da Vittorio Lo Giudice.
Altro appuntamento costante fu quello dedicato ai “Giochi” e nello specifico alla cartomanzia. A curarlo fu Giusy Caudullo. Uno spazio anche in questo caso breve, dove tra il serio e il faceto veniva spiegato di volta in volta il significato dei “tarocchi” o dei segni zodiacali.
Alla televisione, fenomeno mediatico che in quegli anni era in piena evoluzione, venne dato uno spazio fisso che, servizio dopo servizio, riuscì a raccontare ciò che accadeva ad esempio in Sicilia nell’ambito delle televisioni private, oppure ciò che accadeva nei programmi Rai o di altre tv private nazionali. Erano gli anni in cui, un imprenditore del nord, Silvio Berlusconi, stava costruendo il più grande network televisivo privato.
In ogni numero c’era pure un articolo (in alcuni casi più d’uno) dedicato ad una località siciliana: un viaggio in una Sicilia poco conosciuta, spesso lontana dai grandi circuiti turistici, di cui si sottolineava la bellezza e la forte identità culturale.
Negli ultimi due numeri si inaugurò inoltre “il viaggio alla scoperta del buon mangiare”, due ampi servizi di Giuseppe Fava in cui aspetti del patrimonio gastronomico siciliano venivano raccontati in maniera tale da evocare nel lettore i profumi e i sapori descritti.
L’insieme di tutti questi servizi costituiva il 60% circa degli articoli e occupava in media una buona metà delle pagine dell’intero giornale. Erano articoli leggeri, agili, dal tono più disteso, volti anch’essi ad analizzare criticamente certe storture, ma soprattutto volti a far conoscere e valorizzare aspetti positivi e propositivi della realtà siciliana.
Tiziana Pizzo racconta che a Giarratana la squadra di pallavolo femminile riesce a vincere contro la prima in classifica, la pallavolo diventa l’attrazione del paese e le tribune si riempiono ad ogni partita: “[…] l’intero paese partecipa in maniera diversa, anche perché comincia a non trattarsi più di una stramberia o di un semplice passatempo[…]” [Tiziana Pizzo, Rivoluzione di sei ragazze senza scialle, n. 2 febbraio 1983].
L’emancipazione della donna in Sicilia passa anche attraverso queste piccole grandi imprese.
La rivista racconta il lato umano e sociale dello sport. Uno sport visto come momento di emancipazione e di aggregazione, momento di rivalsa sociale per le classe più povere.
Oltre allo sport, a dare respiro al giornale furono le pagine dedicate alla cultura: gli interventi critici di scrittori come Addamo e Vincenzo Consolo; i racconti di Giuseppe
Fava firmati spesso con vari pseudonimi; ma anche le rubriche di teatro, cinema, musica, arte curate da vari redattori, tra cui Gaetano Caponetto, Elena Brancati, Nello Pappalardo, Giovanni Iozzia, Fortunato Grosso.
In ogni numero era inoltre presente un servizio di circa due pagine, attentissimo ai problemi dell’ecologia, curato da Vittorio Lo Giudice.
Altro appuntamento costante fu quello dedicato ai “Giochi” e nello specifico alla cartomanzia. A curarlo fu Giusy Caudullo. Uno spazio anche in questo caso breve, dove tra il serio e il faceto veniva spiegato di volta in volta il significato dei “tarocchi” o dei segni zodiacali.
Alla televisione, fenomeno mediatico che in quegli anni era in piena evoluzione, venne dato uno spazio fisso che, servizio dopo servizio, riuscì a raccontare ciò che accadeva ad esempio in Sicilia nell’ambito delle televisioni private, oppure ciò che accadeva nei programmi Rai o di altre tv private nazionali. Erano gli anni in cui, un imprenditore del nord, Silvio Berlusconi, stava costruendo il più grande network televisivo privato.
In ogni numero c’era pure un articolo (in alcuni casi più d’uno) dedicato ad una località siciliana: un viaggio in una Sicilia poco conosciuta, spesso lontana dai grandi circuiti turistici, di cui si sottolineava la bellezza e la forte identità culturale.
Negli ultimi due numeri si inaugurò inoltre “il viaggio alla scoperta del buon mangiare”, due ampi servizi di Giuseppe Fava in cui aspetti del patrimonio gastronomico siciliano venivano raccontati in maniera tale da evocare nel lettore i profumi e i sapori descritti.
L’insieme di tutti questi servizi costituiva il 60% circa degli articoli e occupava in media una buona metà delle pagine dell’intero giornale. Erano articoli leggeri, agili, dal tono più disteso, volti anch’essi ad analizzare criticamente certe storture, ma soprattutto volti a far conoscere e valorizzare aspetti positivi e propositivi della realtà siciliana.
sabato 19 dicembre 2009
La cronaca di un successo
Il mensile riscosse un enorme successo. La tiratura, variabile a seconda delle finanze del momento, veniva quasi totalmente venduta. Era un successo per la Sicilia e i siciliani. E Fava non si esimeva dal sottolinearlo nei suoi editoriali:
Mentre I Siciliani avevano conquistato la Sicilia, tutta la Sicilia degli imprenditori rifiutava di pubblicare i propri annunci pubblicitari sul giornale di Fava. Gli introiti pubblicitari erano pochissimi, a fronte delle spese di stampa e distribuzione del giornale. Le spese aumentarono inoltre quando della stampa si occupò una tipografia di Roma, visto che la tiratura de I Siciliani cresceva e le macchine comprate si erano rivelate già vecchie all’acquisto.
La situazione finanziaria della cooperativa era sempre stata critica: nessun giornalista percepiva uno stipendio, per nessun lavoro, visto che tutti i soci svolgevano più mansioni all’interno del giornale (grafici, distributori e perfino elettricisti).
Intanto nessun imprenditore aderiva al progetto de I Siciliani. Solo qualche piccolo imprenditore amico del direttore. Eppure figuravano sulla rivista pagine di pubblicità nazionali, come le auto Fiat e Volvo, la birra Peroni e i pneumatici Pirelli. Era uno degli altri lavori di Riccardo Orioles che cercava di rendere appetibile la rivista presso gli inserzionisti pubblicitari.
Lo rileviamo noi il giornale!
Erano state numerose le offerte per far tacere la voce de I Siciliani durante il loro primo anno di attività. Inizialmente il cavaliere del lavoro Graci, uno degli editori del Giornale del Sud, aveva contattato Fava per comunicargli la proposta di rientrare come direttore nel quotidiano catanese. Successivamente persone vicine al cavaliere Rendo parlarono con il direttore Fava al fine di offrire alla redazione la gestione della emittente televisiva catanese Telecolor, di proprietà dello stesso cavaliere. Tale offerta fu ricomunicata anche da Salvo Andò, politico socialista, successivamente Ministro della Difesa, che arrivò in redazione per convincere Fava ad accettare l’offerta del cavaliere Rendo. Infine sempre il cavaliere Graci, durante un diverbio con il direttore de I Siciliani, arrivò ad offrire duecentocinquanta milioni per entrare nella cooperativa. Erano tutte tecniche per cercare di addomesticare una redazione che si era rivelata scomoda, guidata da un direttore ormai considerato una spina nel fianco dalla mafia. Fava rifiutò amabilmente tutte le offerte che vennero fatte da tali persone che volevano comprare, a suon di denari, un progetto editoriale e la libertà professionale e di espressione.
I Siciliani hanno conquistato la Sicilia. Il nostro giornale in meno di due mesi è riuscito in una impresa senza precedenti, diffondere cioè la sua presenza in ogni centro dell’isola, dalla grande città al paese più sperduto dell’interno, e dovunque con lo straordinario favore della pubblica opinione. […] Non c’era stato mai finora uno strumento di informazione, giornale o emittente televisiva, che avesse potuto o saputo penetrare così rapidamente e profondamente sull’intero territorio della regione e con una manifestazione di stima così spontanea. Come se nella coscienza siciliana ci fosse un grande vuoto della conoscenza, una specie di spazio deserto della cultura, che il nostro periodico è venuto ad occupare. […] Forse è la prima volta che la Sicilia viene interamente conquistata da Siciliani, i quali da questa conquista muovono per una avanzata verso la Nazione: non più oggetto o semplici destinatari, ma portatori, anzi protagonisti della cultura.Ma cominciavano anche i problemi. Le inchieste davano fastidio in ogni ambiente, dalla stanza del mafioso latitante Santapaola alle scrivanie dei politici. Era l’inizio della strategia dei nemici che tentarono di isolare il periodico e di delegittimare Fava dipingendolo per lo più come un grande narratore di frottole.
[Giuseppe Fava, Una sfida al Sud, Marzo 1983]
Come previsto, la grande alleanza dei masnadieri contro il nostro giornale si va saldando. Da una infinità di piccoli, oscuri ma inequivocabili segni, appare sempre più chiara la identità dei nemici che via via si aggregano alla congiura. Chi sono costoro? Sono uomini politici corrotti, dirigenti di enti pubblici sperperatori, presidenti di aziende finanziarie che manovrano centinaia di miliardi senza paternità, alti funzionari che amministrano e distribuiscono denaro pubblico alle grandi clientele, operatori di vertice abituati a dominare dall’ombra giganteschi affari. Essi sono contro poiché hanno il terrore del successo imprevisto, clamoroso, incalzante de I SICILIANI […] poiché temono che, da un mese all’altro, su queste pagine, compaia il racconto della loro ribalderia. […] Ora noi vogliamo fare un discorso chiaro e definitivo. Noi vogliamo solo esercitare la nostra professione di giornalisti nel modo più puro, più morale e trasparente, esaminando serenamente i grandi problemi del Sud, proponendo le oneste soluzioni, valorizzando l’intelligenza, le virtù, l’intraprendenza del Sud. […] E tutto questo non si può realizzare se non attraverso la verità su tutto e su tutti. […] A questo punto, allora, un’altra cosa vorremmo fosse chiara e definitiva come una martellata in mezzo alla fronte, per tutti coloro i quali credono di poter ammansire o sopraffare “I SICILIANI”. Non ce la faranno mai. Ben vengano avanti. Noi li ringraziamo! Qualsiasi attacco disonesto, sleale o peggio, avrà soltanto il risultato di poterci fare identificare meglio i ribaldi, e concentrare quindi la nostra attenzione civile, la nostra durissima, incorruttibile azione di giornalisti e di cittadini verso gli uomini e gli enti responsabili.Finanziamenti e Pubblicità
[Giuseppe Fava, A ciascuno il suo, Giugno 1983]
Mentre I Siciliani avevano conquistato la Sicilia, tutta la Sicilia degli imprenditori rifiutava di pubblicare i propri annunci pubblicitari sul giornale di Fava. Gli introiti pubblicitari erano pochissimi, a fronte delle spese di stampa e distribuzione del giornale. Le spese aumentarono inoltre quando della stampa si occupò una tipografia di Roma, visto che la tiratura de I Siciliani cresceva e le macchine comprate si erano rivelate già vecchie all’acquisto.
La situazione finanziaria della cooperativa era sempre stata critica: nessun giornalista percepiva uno stipendio, per nessun lavoro, visto che tutti i soci svolgevano più mansioni all’interno del giornale (grafici, distributori e perfino elettricisti).
Intanto nessun imprenditore aderiva al progetto de I Siciliani. Solo qualche piccolo imprenditore amico del direttore. Eppure figuravano sulla rivista pagine di pubblicità nazionali, come le auto Fiat e Volvo, la birra Peroni e i pneumatici Pirelli. Era uno degli altri lavori di Riccardo Orioles che cercava di rendere appetibile la rivista presso gli inserzionisti pubblicitari.
Pubblicavamo pubblicità fasulla. Copiata da altri giornali per dare autorevolezza al giornale. Solo un albergatore, il signor Timpanaro forniva qualche inserzione pubblicitaria. Poi ogni tanto qualche ristorante di serie b, e nient’altro. [….] La lega delle cooperative aveva chiesto una pubblicità: una cooperativa di water mobili per le manifestazioni, che ci fu pagata dopo un anno. Fu l’unica consistente. […] Ogni tanto qualche giudice di provincia ci dava qualche annuncio istituzionale. Avevamo chiesto a tutti gli industriali puliti: tutti rispondevano “il mese prossimo”. Mentre il Banco di Sicilia pubblicava la pubblicità sui giornali di Mantova. Mettersi su I Siciliani voleva dire esporsi. Anche nell’ultima riapertura non avevamo pubblicità alla stessa maniera, neanche istituzionale”.Mai nessuno però fu invogliato a schierarsi così responsabilmente contro la mafia. Una pagina di pubblicità costava quattrocentomila lire: una somma modesta che neanche il Banco di Sicilia poté spendere, visto che rifiutò l’invito poiché quei soldi “per l’acquisto di una pagina pubblicitaria non rientrassero nei budget promozionali” [C.Fava, La mafia comanda...]. Gli unici introiti, oltre alla vendita del giornale, erano quelli provenienti dall’inserto turistico. Erano dei servizi presenti nelle ultime pagine del giornale che i comuni siciliani acquistavano per pubblicizzare la loro storia, mediante dei pezzi, a cura dei comuni, corredati da foto e itinerari. Erano spesso Nanni Maione o lo stesso Giuseppe Fava, che giravano in lungo e in largo la Sicilia per vendere a qualche piccolo paese un servizio di questo genere.
Riccardo Orioles, intervista
Lo rileviamo noi il giornale!
Erano state numerose le offerte per far tacere la voce de I Siciliani durante il loro primo anno di attività. Inizialmente il cavaliere del lavoro Graci, uno degli editori del Giornale del Sud, aveva contattato Fava per comunicargli la proposta di rientrare come direttore nel quotidiano catanese. Successivamente persone vicine al cavaliere Rendo parlarono con il direttore Fava al fine di offrire alla redazione la gestione della emittente televisiva catanese Telecolor, di proprietà dello stesso cavaliere. Tale offerta fu ricomunicata anche da Salvo Andò, politico socialista, successivamente Ministro della Difesa, che arrivò in redazione per convincere Fava ad accettare l’offerta del cavaliere Rendo. Infine sempre il cavaliere Graci, durante un diverbio con il direttore de I Siciliani, arrivò ad offrire duecentocinquanta milioni per entrare nella cooperativa. Erano tutte tecniche per cercare di addomesticare una redazione che si era rivelata scomoda, guidata da un direttore ormai considerato una spina nel fianco dalla mafia. Fava rifiutò amabilmente tutte le offerte che vennero fatte da tali persone che volevano comprare, a suon di denari, un progetto editoriale e la libertà professionale e di espressione.
venerdì 18 dicembre 2009
Il 5 gennaio 1984
Nel dicembre del 1983 Giuseppe Fava partecipò al programma “Film story” di Enzo Biagi. Una puntata monografica sulla mafia registrata il 18 dicembre e andata in onda su Retequattro il 29 dello stesso mese. Rilasciò in quella occasione una intervista in cui confermava le idee che avevano permeato il primo anno di attività editoriale de I Siciliani: “I mafiosi stanno in parlamento […] I mafiosi sono ministri, sono banchieri, sono quelli che sono ai vertici della nazione [...] Non sono quelli che ammazzano, quelli sono gli esecutori […]”. È il potere politico, fatto di pensatori e grandi imprenditori, banchieri e capi di partito collusi, la vera mente della mafia. In quell’occasione Pippo Fava proponeva un reset politico-sociale, una Seconda Repubblica.
Giuseppe Fava venne ucciso la sera del 5 gennaio 1984: “alle 21 e 30 d’un piovoso giovedì. È in auto, una Renault prestata da un amico perché la sua vecchia 124 non ce la fa più. Gli sparano alle spalle, cinque colpi di 7.65 alla nuca” [C.Fava, La mafia comanda...]. Ed è scontato che sia un omicidio di mafia. Cosa nostra stavolta aveva ucciso un intellettuale, un uomo che aveva trovato le giuste parole per raccontare e denunciare la mafia e le sue collusioni politiche e imprenditoriali. Per un anno ne aveva parlato in quel mensile. Una voce scomoda al punto da essere troncata in quella maniera plateale, cinque colpi in testa, cinque colpi alla verità e alla forza delle idee, delle parole, della libertà di espressione.
È il primo cadavere eccellente di mafia a Catania. Non c’erano stati giudici uccisi, né politici. A quel punto diventava impossibile non affermare che non ci fosse mafia a Catania. Ma a Catania, quella della “sindrome Catania”, niente era impossibile. Durante i funerali di Pippo Fava, il sindaco Angelo Munzone riusciva a fare un discorso senza mai pronunciare la parola mafia, e per questo fu sommerso dai fischi indignati della gente accorsa alla funzione.
La mafia? È ormai dovunque, nel mondo: ma qui, a Catania, no. Lo escludo. Davanti al mondo testimonio che mai pressione o intimidazione c’è stata, in questa parte della Sicilia, in questa città storicamente immune dal cancro che mi dite. Polveroni, chissà da chi ispiratiUn funerale svolto senza la presenza di una istituzione: nessun ministro, nessun sottosegretario, nemmeno un rappresentante dell’ordine dei giornalisti. Altri politici, come il democristiano Antonino Drago, lanciavano un duro monito: chiudere presto quell’indagine prima che a Catania accadessero “cose gravi”, come la fuga dei cavalieri ormai criminalizzati dalla stampa.
[Intervista al sindaco Angelo Munzone su La repubblica, 9 gennaio 1984]
[…] Chiediamo a Drago un’opinione sugli impressionanti risultati delle inchieste sul dopo dalla Chiesa, e delle stesse intuizioni del generale ucciso, circa un ponte, criminale e di potere, tra la Sicilia mafiosa e questa “altra” Sicilia. «Mi auguro che i magistrati chiudano rapidamente questa indagine, per ridare serenità alle attività pubbliche e alle attività economiche. Sennò, possono succedere cose gravi». Quali? Il messaggio che il capo della Dc catanese affida ai massmedia è pesante: «Questa gente può dire: io qui, d’ora in poi, non investo più una lira. I “cavalieri” da tempo criminalizzati, hanno costruito in quarant’anni veri imperi economici, ma hanno dato notevoli occasioni di lavoro alla città, che, è vero, vive anche di terziario e di altre piccole e medie aziende, ma in crisi […] Abbiamo avuto contatti personali. E questi ci hanno detto: vogliono andarsene».Inviti raccolti dal procuratore aggiunto Di Natale, quello del “Caso Catania”, che, dirigendo l’inchiesta personalmente, intraprese la via del delitto passionale o dei debiti di gioco, investigando nei conti del giornale e in quelli della famiglia Fava. In pratica il metodo che la legge La Torre permetteva, veniva paradossalmente utilizzato per la prima volta contro le vittime della mafia.
[Intervista a Nino Drago, l’Unità, 9 gennaio 1984]
Catania aveva due volti: la gente comune, intontita e turbata dalla tragedia, che era accorsa numerosa ai funerali e si era stretta attorno ai giornalisti di Fava, e la città dei poteri forti e di Cosa nostra, che cercava di seppellire subito quel delitto scomodo, responsabile di aver indebolito gli equilibri della città già messi a dura prova dopo la criminalizzazione avvenuta dopo l’uccisione del generale dalla Chiesa.
martedì 15 dicembre 2009
Con lui tutto continua
Al redattore de “Il Siciliano”
che è comparso in televisione la sera
del 7 gennaio 1984
e che forse si chiama Ordales o Rosales
vorrei dire la mia riconoscenza
per l’intelligenza e l’esattezza,
quelle che dal fondo della negazione
e dello sconforto
fanno capire che nulla è morto mai veramente
se c’è la volontà di capire
tranquillamente - e di volere la verità.
A quel redattore
che parlava da Catania
come da Managua, da Ciudad de Guatemala,
la riconoscenza, la gratitudine e anche il silenzio
di un vecchio che venti anni fa a Catania
parlò a cento o duecento studenti, forse anche a lui;
e sa di essere stato compreso. Con lui
tutto continua.
Franco Fortini, 7 gennaio 1984
sabato 12 dicembre 2009
I Siciliani: Fondatore Giuseppe Fava 1984-1986
La notte del 5 gennaio i giornalisti de I Siciliani decisero di continuare il proprio lavoro e di non cedere al ricatto mafioso che voleva obbligarli al silenzio. Il 7 gennaio fecero circolare una piccola edizione straordinaria: “Un uomo” era il titolo della copertina, quattro pagine formato tabloid dedicate all’impegno del direttore e al coraggio utilizzato nel suo mestiere. Nell’articolo principale, a firma di tutta la redazione, si raccontavano gli anni appena trascorsi: la direzione scomoda di Fava al Giornale del Sud, la nascita e il primo anno de I Siciliani.
Qualche giorno dopo arrivò in edicola il mensile di gennaio: “Ci scusiamo coi lettori per i tre giorni di ritardo di questo numero de I Siciliani” erano le prime parole nell’editoriale, firmato dalla redazione. Continuava l’editoriale:
Non ci interessa qui di rispondere a chi ammonisce che la mafia non esiste, a chi minaccia impaurite vendette. C’interessa rispondere al nostro compito, che è quello di dare una voce udibile e fedele alla Sicilia onesta. […] Ma ora bisogna andare avanti, in modo deciso e organizzato; abbiamo ben risposto all’emergenza, ma ora bisogna programmare. […] Non vogliamo piangere, vogliamo fare.I redattori volevano dare, insieme alla città, una risposta forte alla violenza mafiosa. Fu il vero inizio del movimento antimafia catanese, che in quel periodo fu presente e forte in città. I giornalisti speravano che la morte del loro direttore potesse almeno servire a qualcosa, a mettere in luce le tragedie della città etnea, a far finire le impunità mafiose, e a raccontare la condizione anormale in cui versava la Sicilia dei prepotenti.
Fin da subito si potevano comprendere i motivi dell’uccisione di Fava. La motivazione lampante era che I Siciliani erano riusciti a cogliere nel segno, a dar fastidio a Cosa nostra a cui non era piaciuta la gestione di quel mensile che svelava finalmente alla città il suo volto più nascosto, quello nero degli affari mafiosi e delle sue amicizie con cavalieri e politici. Era stato un tipico omicidio di mafia, nell’esecuzione, ma anche un avvertimento agli altri giornalisti: la mafia voleva il silenzio. Stavolta Cosa nostra non aveva ucciso qualcuno, come già capitato in passato, che era a conoscenza di operazioni segrete o inchieste scomode. Pippo Fava, intellettuale, moriva per ciò che rappresentava, un uomo che sapeva parlare alla gente, a cui raccontava, da uomo di teatro, la scena in cui ormai il popolo siciliano viveva, quella della mafia, dei potenti e degli invulnerabili.
I giornalisti de I Siciliani decisero di continuare a lavorare, in quella terra che si era rivelata più volte ostile alla professione svolta con la schiena dritta. Il loro lavoro per alcuni aspetti cambiò status. Come militari in guerra attuarono delle modifiche alla professione: essere giornalisti a Catania, adesso, voleva dire anche possedere il porto d’armi, per due ragazzi della redazione; voleva dire firmare sempre in due un’inchiesta, in maniera che se avessero dovuto uccidere un giornalista sarebbe stato l’altro a continuarla. Chiesero inoltre aiuto ad un gruppo di intellettuali per svolgere il ruolo di garanti della loro professione: i testimoni del loro lavoro presso l’opinione pubblica nazionale, rappresentanti della società civile erano Pino Arlacchi, Nando dalla Chiesa, Alfredo Galasso, Guido Neppi Modona, Gianfranco Pasquino, Stefano Rodotà. Tutto quello che veniva scritto sul giornale era mandato anche a loro. Alcuni di quegli intellettuali divennero in seguito anche dei forti punti di riferimento della redazione, come nei casi di dalla Chiesa e Galasso.
Il giornale cambia pelle, anche perché l’apporto fondamentale del direttore non vi è più. La rivista del dopo Fava è un giornale di “guerra”, come lo definiscono oggi alcuni di quei redattori. I Siciliani volevano vendicare l’uccisione del loro direttore, avevano trovato il loro nemico, mafia e cavalieri, e cercavano di puntarlo solamente attraverso il lavoro che Fava aveva insegnato loro, la rivoluzione tramite la parola. I settori culturali e di costume si indebolirono, i numeri risultarono meno bilanciati nelle loro diverse parti, mentre dall’altro lato le inchieste sulla mafia si ampliavano e si indurivano. Scrissero tante inchieste, sempre di tipo investigativo, il cui lavoro impegnava dei mesi, ma che alla fine davano grosse soddisfazioni e un grande contributo di conoscenza. Era come fare “giornalismo libero a Varsavia”, disse una volta Riccardo Orioles in occasione di un convegno organizzato dal sindacato nazionale dei giornalisti a Catania, dal titolo “Giornalista nel sud”. Il concetto era semplice: per farsi strada bisogna anche urlare. Qui in Sicilia c’è la guerra.
I Siciliani diventa anche un movimento che cerca di fare coagulare intorno a sé la società civile catanese: studenti, associazioni, collettivi, tutti insieme contro la mafia. È la continuazione di quel movimento antimafia siciliano, nato il giorno dopo l’uccisione di dalla Chiesa. Animato dagli stessi ideali nasce il supplemento I Siciliani giovani, luogo di espressione giovanile, fatto dagli studenti delle scuole medie superiori e rivolto alle scuole: uno strumento originale che farà crescere dei ragazzi che saranno fondamentali nell’esperienza de I Siciliani negli anni Novanta.
I Siciliani giovani era un giornale che cercava di raccontare; lì c’è una idea che riprende l’idea di Fava, raccontare le storie di vita. C’è sempre una vicenda umana dietro il mattinale della questura e Riccardo Orioles ce lo aveva trasmesso; ci faceva riscrivere il pezzo tantissime volte fino a renderlo discreto. Ne I Siciliani giovani c’era il mestiere, c’era l’aggregazione politica e c’era il movimento; tutti arrivavano con le proprie motivazioni. Era una maniera per essere presenti, l’unico e il nuovo in quel momento. Un periodo che inizia nell’84 e finisce grosso modo nell’86. Sul versante movimento c’era stata l’idea del centro sociale, uno spazio vuoto da occupare, che all’epoca avevamo individuato ne “la centrale del latte”, nel quartiere Barriera di Catania. Sul versante del giornale, i ragazzi dei Siciliani giovani vanno a confluire ne I Siciliani settimanale attraverso le pagine della cronaca. Era una palestra, ogni giorno facevamo il giro delle questure e ospedali a caccia di notizie”.Furono tantissimi i cittadini accorsi al primo anniversario della morte del direttore, il 5 gennaio 1985, quando venne organizzata una grande manifestazione:
[Gianfranco Faillaci, intervista]
Oggi, cinque gennaio, saremo in piazza, i siciliani onesti, per ricordare un uomo. Un uomo, e la sua lotta: cos’altro si può dire? Tutti sappiamo di che si tratta. Ritroviamoci dunque tutti insieme; questa sera, e nelle migliaia di giorni che seguiranno. Perché ci saranno ancora migliaia di giorni, migliaia di mattinate a Palazzolo, migliaia di dolci sere a Siracusa, migliaia e migliaia di giorni sulla faccia della terra; e migliaia di speranze, passioni, entusiasmi, delusioni, amicizie, progetti, ed ancora entusiasmi e delusioni, e rinnovate speranze ed amore; e in ciascuna di esse ci sarà qualcosa di Giuseppe Fava, qualche cosa di lui e di tutti gli esseri umani come lui. E a questo, non potranno sparare.Furono numerosi i partecipanti accorsi alla manifestazione: era il frutto del lavoro di un anno a contatto con la città. Nelle strade di Catania manifestavano i braccianti, gli studenti, i maestri di scuola, i bambini e i docenti universitari, tutti insieme per ricordare Pippo Fava. In via dello Stadio, luogo dove venne assassinato, alcuni ragazzi si arrampicarono su una parete per appendere una targa: “via Giuseppe Fava”.
[La redazione de I Siciliani, Un uomo e la sua lotta, I Siciliani, Gennaio 1985]
Nacque anche un’associazione, dal nome “I Siciliani”; non era più sufficiente essere semplicemente un giornale, c’era il bisogno che diverse iniziative, sostenute e gestite da tutti i cittadini, convergessero in un unico obiettivo, liberarsi dalla mafia. L’associazione diventò così il centro di nuove idee e proposte, e si fece promotrice, tra le altre, di una iniziativa per la gestione pubblica dei beni sequestrati a Cosa nostra.
Intanto nel 1985 I Siciliani decisero di diventare settimanale, per essere una voce più presente e rispondere ad una situazione d’informazione sempre più buia. Era un giornale disegnato sullo stile del vecchio “Espresso”. Avevano progettato un piano di finanziamento che si basava sulla solidarietà del movimento antimafia. Ma i riflettori sulla vicenda cominciavano già a spegnersi, e molte promesse non furono mantenute.
Si apre così un periodo arduo per I Siciliani, senza soldi, poiché gli imprenditori continuavano a non esporsi così responsabilmente contro la lotta alla mafia, e con turni di lavoro ancora più serrati che arrivavano adesso alle diciotto ore. Ovviamente nessuno stipendio in vista per nessuno dei giornalisti professionisti.
venerdì 11 dicembre 2009
La mafia (84-86)
Tra il 1984 e 1985 cominciano ad arrivare i primi arresti per il “terzo livello mafioso”, quello politico. A Palermo viene arrestato l’ex sindaco Vito Ciancimino, amico dei corleonesi. In questa direzione si allargano le inchieste sugli amici dei politici mafiosi, una struttura che opera impunita alla luce del sole.
Ciancimino è, relativamente, un pesce piccolo; ma è il primo leader politico ufficialmente incriminato come mafioso. Questo fornisce un precedente, e una pista da seguire. Un precedente, perché adesso nessuno può più negare che il rapporto fra mafia e politica - il “terzo livello” di cui parlava Chinnici - esista veramente e vada dunque risolutamente individuato e colpito. Uno strumento perché, se Ciancimino è mafioso, la sua mafiosità non si sarà limitato ad esercitarla nel buio di qualche misterioso covo ma l’avrà utilizzata anche e soprattutto nei luoghi in cui faceva attività politica, alla luce del sole. E dunque, analizzando i dati di questa attività (di che corrente era? chi erano i suoi amici politici? chi ha votato per lui nella tale votazione per il tale incarico o il tale appalto?), se ne possono ricavare elementi preziosi non solo per una generica denuncia socio-politica ma anche per le specifiche indagini penali che seguiranno”.
A proposito di terzo livello, I Siciliani, Ottobre 1984
Alla mafia erano dunque toccati, in Sicilia, i seguenti dicasteri: Tesoro e Finanze, coi cugini Salvo; Enti Locali, cogli uomini di Ciancimino; Commercio con l’Estero, con Sindona. Ci limitiamo naturalmente ai soli incarichi pubblicamente ed ufficialmente conferitile, con le dovute procedure, dalle autorità competenti e non anche a quelli più o meno contrattati sottobanco; e solo a quelli scientificamente e indubitabilmente accertati dalla magistratura e non anche a quelli su cui la magistratura sta tuttora indagando. Diversamente, avremmo dovuto prendere in considerazione anche il Commissariato ai Rapporti con l’Europa dell’onorevole Lima, il Ministero degli Affari Da Non Nominare del fu Gioia, il titolare della Pubblica Omertà Drago, l’incorruttibile ministro degli Interni Liggio e anche il molto onorevole ministro dei Contributi Ai Mafiosi, Aleppo. In un modo o nell’altro, tutto questo apparato - che non era affatto nascosto ma operava alla luce del sole - ha pacificamente e, ripetiamo, ufficialmente governato la nostra Isola per molti e molti anni. L’onorevole Lima ha così potuto portare nei consensi europei la nobile voce di questa terra fiera e generosa, mentre il Commercio con l’Estero - ufficialmente riconosciuto da statisti della portata d’un Andreotti - trafficava alacremente con le terre più lontane. Ciancimino e i suoi amici, al Comune di Palermo e altrove, raccoglievano i soldi dei siciliani, che non sapevano che farsene, e li portavano in America; i buoni cittadini, nel frattempo, pagavano onestamente le tasse agli sportelli dei Salvo, che le investivano in opere di pubblica utilità. L’onorevole Drago predicava ai fanciulli che la mafia non esiste e l’onorevole Liggio - coadiuvato dai Prefetti Greco, Badalamenti, Marchese, Santapaola e Ferlito - manteneva inflessibilmente l’ordine nelle province e nelle città. Quanto al titolare dei Contributi A Quei Signori, lavorava come una bestia sedici ore al giorno, e talvolta anche di notte, pur di non rimandare a mani vuote nessuno dei suoi assistiti. A Catania i quattro Cavalieri disponevano appalti e Procure, a Palermo il gran Bali Cassina distribuiva onorificenze e commende, a Roma il ministro della Difesa Ruffini, buon amico dei signori Spatola, passava in rassegna i Regi Carabinieri ogni Quattro Novembre. E tutti vivevano felici e contenti, tranne quelli che non potevano tecnicamente farlo perché raggiunti da raffiche di lupara”.I redattori continuavano così a vigilare sulle figure di spicco della Sicilia di quegli anni: l’ex assessore Aleppo, il nuovo segretario regionale democristiano Calogero Mannino, l’onorevole democristiano Nino Drago, gli esattori di Salemi Antonino e Ignazio Salvo, il democristiano Salvo Lima, l’onorevole Lo Turco.
Orioles, A chi toccherà adesso?, I Siciliani, Dicembre 1984
Nei primi anni ‘70, da assessore regionale alle Finanze, fu proprio Calogero Mannino ad inventare le cosiddette “tolleranze”, un meccanismo - frutto di alcuni decreti firmati ad hoc dal giovane assessore democristiano - che permetteva ai Salvo di trattenere in banca per diverso tempo, percependo interessi per miliardi, le enormi somme di denaro derivanti dalla riscossione delle imposte per conto dello Stato. Una circostanza che qualche anno fa consentì ad un altro notabile democristiano, Salvatore Sciangula, di definire Mannino «uomo dei Salvo».
M. Gambino, Mannino, Verzotto e la Sitas, I Siciliani, Maggio 1985
«Santapaola, signor giudice? Un perfetto gentiluomo! Tratti signorili, modi cortesi! Un signore!». A rispondere così, davanti a Falcone che l’interrogava, era l’onorevole Lo Turco, socialdemocratico catanese. Che ci faceva Lo Turco da Falcone? Per via di certe foto, scattate in una certa festa catanese, in cui mezzo Consiglio comunale, democristiani e socialdemocratici in testa, brindava allegramente con Nitto Santapaola, boss della mafia catanese. […] L’onorevole Lo Turco, dicevamo, esercita adesso il nobile mestiere di campione della Legge e dello Stato contro il drago mafioso: in nome della Regione siciliana. Egli infatti, dall’ottobre ‘84, è uno dei componenti di quella Commissione regionale antimafia che, stando ai programmi, dovrebbe contrastare gli interessi delle cosche tanto palermitane quanto catanesi. […] Il partito socialdemocratico, il partito di Saragat e di Goethe, ha ritenuto opportuno farsi rappresentare dall’onorevole Lo Turco. C’è da dire , peraltro, che l’onorevole Lo Turco ha ritenuto molto raramente di onorare della propria presenza le riunioni della commissione; come pure l’onorevole La Russa, anche lui catanese, che alle riunioni non è venuto mai. Il comportamento di Lo Turco e La Russa è stato, per così dire, il modello del successivo comportamento delle forze politiche di maggioranza all’interno della Commissione. Per sabotare una commissione, infatti, non è necessario votare contro; basta far mancare il numero legale nei momenti giusti”.Sui cavalieri del lavoro catanesi vennero pubblicati: gli scritti promemoria per gli amici e i nemici del cavaliere Rendo, l’inchiesta del giudice Carlo Palermo culminata nell’aprile del 1985 con l’arresto dei cavalieri del lavoro, più le denunce di una serie di appalti strategici e affari sottobanco.
R. Orioles, Antimafia regionale: il tredicesimo è di troppo, I Siciliani settimanale, 19 Marzo 1986
Negli ordini di cattura, firmati il pomeriggio del 18 aprile, ci sono ventisette nomi: i cavalieri, i loro colletti bianchi, mezza dozzina di faccendieri trapanesi ed un noto mafioso. L’accusa è contenuta in poche battute, «associazione per delinquere finalizzata alla formazione ed utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti». In altre parole, alcuni piccoli appaltatori trapanesi emettevano a favore dei cavalieri di Catania fatture per lavori ricevuti in subappalto e mai eseguiti; ed i cavalieri in questo modo avevano avuto buon gioco nell’evadere l’Iva per qualche decina di miliardi […] A recitare il ruolo-chiave nell’intera vicenda delle false fatturazioni, oggi troviamo proprio un uomo di Totò Minore, Francesco Pace: era lui che organizzava i subappalti, che sceglieva i piccoli imprenditori locali che avrebbero dovuto fare il gioco dei cavalieri catanesi, che incassava gli assegni con cui Rendo, Graci, Campagna, Parasiliti e Costanzo pagavano la sua disponibilità, che controllava il buon andamento di tutte le operazioni bancarie collegate al racket delle false fatture. Un’unica cordata, insomma, che parte dai Minore e, attraverso un personaggio del calibro di Francesco Pace, arriva ai cavalieri di Catania.
C.Fava, M.Gambino, R.Lanza, R.Orioles, Fatture false perché i cavalieri, I Siciliani, Maggio 1985
In quell’occasione vennero arrestati Mario Rendo, Pasquale e Carmelo Costanzo, Gaetano Graci, Giovanni Parasiliti, insieme a diversi mafiosi. Erano accusati di false fatturazioni finalizzate all’evasione fiscale; successivamente fu formulata l’accusa di associazione a delinquere. “Ma la prima sezione penale della Corte di Cassazione (presidente Corrado Carnevale) annullerà i mandati di cattura. Quattro anni dopo, al processo, saranno tutti assolti dall’accusa di associazione a delinquere; dalla condanna per la colossale evasione fiscale li invece salverà un provvidenziale “condono” del ministro delle Finanze Rino Formica (Psi)”.
Dalla cronologia a cura di Sebastiano Gulisano su www.claudiofava.it/memoria
“Con un po’ di sfortuna il cavaliere del lavoro catanese Carmelo Costanzo, industriale con l’hobby del cemento e delle cattive compagnie, nel giro di qualche anno potrebbe iscrivere il suo nome nel guinness dei primati con un formidabile record: se una delle molteplici vicende giudiziarie che lo vedono protagonista dovesse concludersi con un processo ed una condanna, infatti, il baffuto cavaliere potrebbe essere il primo uomo in Italia, ma probabilmente nel mondo, ad essere processato in un’aula di tribunale costruita dai suoi operai, per poi essere rinchiuso in una cella progettata dai suoi costosissimi architetti”.Sugli esattori di Salemi, i cugini Salvo, pubblicarono ampie inchieste sul riciclaggio di denaro, sul ruolo delle esattorie, sul proliferare di nuove banche, sui rapporti con l’eurodeputato Salvo Lima soprattutto alla luce delle rivelazioni del pentito Tommaso Buscetta.
M.Gambino, P.Cimaglia, Catania: il carcere del cavaliere, I Siciliani settimanale, 31 Luglio 1986
Dalle colonne de I Siciliani era frequente il continuo appello all’utilizzo corretto della legge La Torre, che in quel momento faceva paradossalmente confiscare più terreni in Liguria che in Sicilia.
Qualcuno ci regala una statistica sulla legge La Torre. Trentacinque infallibili articoli con i quali faremo tremare la mafia, aveva promesso il ministro degli Interni: ed invece la statistica ci spiega che hanno confiscato più patrimoni in Liguria che in Sicilia, che ci sono più mafiosi nel Veneto che a Palermo o a Catania. Erano pronte tremila schede, aveva assicurato il ministro delle Finanze due anni fa, tutti i boss, i luogotenenti ed i gregari, tutti i patrimoni, i conti in banca, i terreni, tutto... Settembre 1984: i patrimoni confiscati appartengono quasi tutti a mafiosi di mezza tacca; il tribunale di Palermo ha restituito ai Greco di Ciaculli la maggior parte dei loro beni (ricchi possidenti di famiglia, si spiega nella motivazione...); due miliardi era il valore dei beni sequestrati alla famiglia Santapaola, ma sono stati restituiti tutti al legittimo proprietario; Bontade è un mafioso, sua moglie no, spiega il tribunale di Palermo, e quindi i beni intestati alla signora Bontade (terreni, immobili, conti in banca...) non si toccano”.Un lungo lavoro permetteva adesso ai giornalisti di disegnare le mappe della raffinazione e dello smercio della droga. Resero pubbliche le raffinerie dell’eroina e della nuova “droga emergente” la cocaina. Denunciarono il sistema di trasporto di tonnellate di droga: dietro a quelle cassette di arance, spedite al nord, che partivano quotidianamente con i camion dalla Sicilia, si nascondevano spesso i traffici illegali di Cosa nostra; si raccontava così la storia di Lentini e di Scordia e di altri paesini utili agli affari della mafia.
C. Fava, R. Orioles, Effetto dalla Chiesa, A chi fa ancora paura?, I Siciliani, Settembre 1984
Le rotte dell’eroina sono ormai stabilmente collegate a quelle seguite dagli agrumi e dai prodotti delle serre, cioè all’intenso movimento di Tir che partono dai grossi centri agricoli a sud-ovest di Catania per risalire la penisola fino ai grandi mercati del Nord: un movimento di 60-70 camion al giorno garantisce un’efficiente ed insospettabile copertura. Ed è appunto questa - da Vittoria a Palagonia, da Scordia a Lentini - una delle principali zone di operazione del gruppo Santapaola”Dipinsero una mafia policentrica, che nella zona del catanese trovava un nodo fondamentale per gli affari di Nitto Santapaola. Il boss, ormai in latitanza da due anni, si aggirava per la Sicilia aiutato dalla quanto mai strana inerzia delle forze dell’ordine.
C.Fava, M.Gambino, Santapaola Wanted, I Siciliani, Marzo 1985
Ad una richiesta di informazioni, proveniente dai carabinieri di Roma, su Benedetto Santapaola nel 1981, il rapporto in risposta, che portava la firma del tenente colonnello Licata, dichiarava Santapaola un elemento al di sopra di ogni sospetto, per nulla pericoloso. “Il tenente colonnello Serafino Licata, all’epoca comandante del gruppo di Catania, oggi incriminato per favoreggiamento personale nei confronti della Famiglia Santapaola. […] L’omicidio Ferlito, la strage della Circonvallazione e la professionalità dell’ufficio istruzione di Palermo (i primi mandati di cattura da Catania verranno spiccati solo due anni più tardi) segnano l’inizio della latitanza di Santapaola […] Si arriva perfino all’assurdo che l’unica foto segnaletica disponibile del boss latitante (risale ad una dozzina di anni fa: altro titolo di merito degli investigatori catanesi!) non venga distribuita nemmeno nei posti di polizia siciliani.”.Il 22 giugno del 1986 vi furono le elezioni regionali in Sicilia. I Siciliani, tra i candidati alle poltrone dell’ARS, pubblicarono i dieci nomi da non votare.
C.Fava, M.Gambino, Santapaola Wanted, I Siciliani, Marzo 1985
I contatti tra le banche e il riciclaggio di denaro mafioso furono al centro di numerose inchieste. Il Governatore della Banca d’Italia Ciampi si era rivolto all’antimafia: “Ci sono troppi sportelli bancari in Sicilia”. Su questa scia i redattori pubblicarono una serie di inchieste sul riciclaggio di denaro mafioso nelle banche, il proliferare e la repentina fortuna delle industrie-banche in Sicilia, gli affari degli esattori di Salemi, Nino e Ignazio Salvo.
Si scoprì così che negli anni Ottanta c’erano più sportelli bancari a Trapani che a Bologna o a Genova e che la Sicilia era la regione d’Italia dove si cambiavano più lire in dollari. I giornalisti svelarono come alcune banche siciliane fossero gli attori principali nel grande riciclaggio internazionale delle “narco-lire”. Negli ultimi venti anni gli sportelli delle banche locali erano aumentati del 586% contro una media italiana del 83%. Un moltiplicarsi di nuove piccole banche, facilmente controllabili dai gruppi di potere mafiosi. Insomma la mafia si comportava da “mafia imprenditrice – diceva lo storico Pino Arlacchi - facendo sue tecniche e comportamenti propri della società industriale”.
«Ma i fenomeni più patologici - spiega in un documento la segreteria della Cgil-bancari - sono quelli delle industrie-banche: istituti di credito che prosperano con incredibile rapidità, pochi anni dopo essere stati creati, in una regione apparentemente povera». Ne costituisce un esempio la Banca Popolare S. Angelo di Licata, una cooperativa a r.l. che in poco tempo ha saputo moltiplicare sportelli (oggi è presente con venti agenzie in quattro province siciliane ed ha uno sportello perfino a Lampedusa) e depositi: 260 miliardi di mezzi amministrati nel 1982 con un incremento del 31,36% rispetto all’anno precedente, 47 miliardi di depositi in c/c, 250 dipendenti. L’esempio più calzante di quest’industria-banca siciliana resta comunque la Banca Agricola Etnea, l’istituto di credito catanese che appartiene al cavaliere del lavoro Gaetano Graci, uno dei quattro cavalieri - gli altri sono Mario Rendo, Carmelo Costanzo e Francesco Finocchiaro - imputati di associazione a delinquere nell’inchiesta sulle fatture false. «La crescita della Banca Agricola Etnea - e ancora la Cgil-bancari - ha veramente caratteristiche eccezionali. Da un unico sportello aperto nel 1970 a Raddusa, un paesino in provincia di Catania, la banca è arrivata oggi a raccogliere più di duecento miliardi l’anno di depositi». 218 miliardi e 770 milioni, per l’esattezza, nel 1982 con un incremento, rispetto al 1978, del 291%. Oggi la Bae dispone di 18 sportelli sparsi fra le provincie di Catania, Messina ed Enna, ha quattro agenzie stagionali a Panarea, Stromboli, Vulcano e Salina ed è al terzo posto nella graduatoria degli istituti di credito siciliani alle spalle della Banca Sicula di Trapani (che appartiene alla famiglia D’Alì) ed alla Banca del Sud di Messina. Nel dossier “mafia-banche” a cui da diversi anni sta lavorando Giovanni Falcone, un ampio capitolo è dedicato proprio alla Bae”.Altro filone d’inchiesta fu quello sui rapporti tra mafia e terrorismo. Venne a tal proposito individuato un filo diretto tra la strage del Natale 1984 in Val di Sembro e l’attentato di Pizzolungo, preparato per il giudice Carlo Palermo. Un connubio, quello tra mafia e fascisti, seguito anche dal vicequestore di Trapani Giuseppe Peri.
C.Fava, M.Gambino, Mafia e Banche, I Siciliani, Aprile 1984
«Esiste una potente organizzazione dedita alla consumazione dei sequestri di persona, con richiesta di altissimi riscatti per fini eversivi (...). I mandanti dei sequestri vanno ricercati negli ambienti politici delle trame nere e in ambienti insospettabili; questa organizzazione si è servita e si serve delle non meno potenti organizzazioni mafiose siciliane e calabresi (...). Sequestri di persona, attentati, omicidi, tutto fa parte di un’identica strategia intesa a determinare il caos scardinando i poteri di difesa dello Stato al fine di instaurare nuove condizioni di potere e di dominio...». Era l’autunno del 1977, ed il vicequestore di Trapani Giuseppe Peri concludeva con queste parole il suo rapporto: quaranta cartelle dattiloscritte inviate a sette Procure della Repubblica (Trapani, Marsala, Agrigento, Palermo, Torino, Roma e Milano) per ricostruire - sequenza dopo sequenza, responsabilità per responsabilità - la tragica storia di quattro sequestri di persona, sette omicidi ed una strage. Pochi giorni dopo, Peri veniva trasferito d’ufficio - senza alcuna apparente motivazione - in un ufficio periferico della questura di Palermo. Moriva due anni dopo, stroncato da un infarto mentre mani provvidenziali archiviavano definitivamente il suo rapporto”.Vennero condotte ulteriori inchieste sulle relazioni tra mafia e servizi segreti, e mafia e P2. Numerosi pezzi furono dedicati alla P2 di Gelli, in particolare ai nomi, resi pubblici, degli aderenti alla loggia. Tra questi ecco spuntare il nome del cavaliere Rendo e le amicizie di Graci con Sindona. Sul banchiere, iscritto alla P2, i giornalisti metteranno in risalto la sua protezione mafiosa e il suo ingegno nel far proliferare banche in Sicilia. I Siciliani seguiranno successivamente il processo a Sindona e la sua uccisione “al cianuro” nel marzo del 1986. Nelle pagine dello stesso anno figurò la storia del colonnello della Guardia di Finanza Salvatore Florio, uno dei primi ad aver investigato sulla P2 di Licio Gelli; firmatario di documenti riservatissimi su Raffaele Giudice, comandante Generale della Guardia di Finanza, Florio morì in uno “strano” incidente d’auto, e i documenti a cui stava lavorando scomparvero.
Mafia e fascisti, I Siciliani, Giugno 1985
Ancora su mafia e massoneria, nel marzo del 1986 viene scoperta a Palermo la loggia di “Via Roma 391”, nelle cui liste comparvero i nomi di importanti mafiosi, politici e imprenditori.
[…] un’indagine partita da intercettazioni telefoniche su un traffico di droga tra Palermo, Marsiglia e Miami. Le indagini vengono condotte dal giudice Alberto Di Pisa e portano all’individuazione di ventuno trafficanti di eroina; tra questi ce n’è uno, Giovanni Lo Cascio, che frequenta uno strano appartamento in via Roma 391. Quando scatta l’operazione di polizia vengono perquisiti anche questi locali: si tratta di una loggia appartenente alla Massoneria universale di rito scozzese antico, legata all’obbedienza di Piazza del Gesù (ricordate un certo Gelli?). Tra i documenti vi è una lista di nomi, quella degli iscritti alla loggia, che si trova oggi sul tavolo del giudice Falcone. E’ una bomba: da tempo, diciamo da Sindona in poi, si parla dell’esistenza di un legame operativo fra settori deviati della massoneria (di cui fanno parte personaggi ben introdotti nelle istituzioni, nelle banche, nei giornali, nella politica) e mafia che spara. Ora questa scoperta viene a dare degli elementi di fatto alle ipotesi. Ci sono dentro i mafiosi: Salvatore Greco, fratello di Michele, Totò Greco, della famiglia di Croceverde Giardini, Giovanni Lo Cascio, di Agrigento. E accanto a loro ci sono anche i notabili, i cosiddetti insospettabili. Alcuni ormai noti alle cronache, come i fratelli Nino e Alberto Salvo; altri ancora tutti da scoprire.
Chi ha paura della loggia?, I Siciliani settimanale, 19 marzo 1986
giovedì 10 dicembre 2009
La giustizia (84-86)
Sul versante giustizia fu sempre il “Caso Catania” a tenere banco. Il CSM aveva archiviato, con 15 voti contro 15, le accuse mosse dall’inchiesta a Di Natale e Grassi.
Il 27 ottobre dello scorso anno, con una decisione giocata sul filo di lana, 15 voti contro 15, il Consiglio superiore della magistratura disponeva l’archiviazione di tutti gli atti relativi alle presunte irregolarità commesse nell’esercizio delle proprie funzioni da due magistrati catanesi, il procuratore della Repubblica Giulio Cesare Di Natale e il sostituto procuratore Aldo Grassi. […] quel giorno l’organo di controllo della magistratura diede uno schiaffo alla giustizia, quella stessa giustizia che per dovere istituzionale avrebbe dovuto tutelare da ogni attacco e da ogni inquinamento: una parte del consiglio votò, quel giorno, non sulla scorta di una serena valutazione dei fatti, ma in base a precisi ordini di scuderia, e il CSM si spaccò in due: da una parte, decisi a far quadrato attorno ai giudici inquisiti, i magistrati appartenenti a Magistratura Indipendente e i membri laici eletti su designazione della DC, del PSI e del PRI; dall’altra i giudici appartenenti alle due correnti di sinistra, Unità per la costituzione e Magistratura Democratica, e i laici designati dal PCI. 15 contro 15, nemmeno un franco tiratore; un rispetto cieco delle consegne, una dedizione alla propria bandiera non riscontrabile nemmeno nelle aule di Montecitorio. Il “caso Catania”, sulla scorta di quel voto, venne archiviato, la legge La Torre continuò ad essere ignorata in una delle due capitali della mafia”In seguito il ministro di Giustizia Mino Martinazzoli inviò a Catania degli ispettori che elaborarono una relazione sull’operato dei magistrati sopraccitati. Successivamente il procuratore Di Natale lasciò anticipatamente la Magistratura, chiedendo subito la pensione, per non incappare in provvedimenti disciplinari. Simile sorte per Aldo Grassi che chiese il trasferimento a Messina, ma che in pochi anni approdò alla prima sezione penale della Cassazione, alla corte di Corrado Carnevale, il giudice “ammazzasentenze” dei processi alla mafia.
C.Fava, M.Gambino, Dietro quelle toghe, I Siciliani, Settembre 1984.
Negli articoli de I Siciliani si raccontavano le storie di un altro giudice impegnato alla lotta alla mafia tramite una grande inchiesta sui traffici internazionali: Carlo Palermo. Era stato dedicato spazio alle sue indagini trentine, sul traffico internazionale di armi e droga già nel 1983 [Orioles, Ti do i missili e carri armati, tu mi dai droga droga droga, I Siciliani, Giugno 1983]. Per quella indagine scomoda per il governo di Bettino Craxi, fu trasferito a Trapani, dove si distinse per ulteriori indagini su mafia e droga, e sullo scandalo delle false fatturazioni.
[…] l’inchiesta trentina del giudice Carlo Palermo. Traffici internazionali di droga, di mafie nostrane e turche - ma anche d’armi da guerra, e di servizi segreti. Nomi di boss mafiosi, di noti malavitosi, di criminali; ma pur nomi di «politici», di faccendieri piduisti, di generali. Cosche, Famiglie, logge coperte, P2: un inestricabile insieme. Mafia nel senso tecnico, ma anche ben più di essa; miliardi di stupefacenti, ma anche ben più ampi interessi. E solo di stupefacenti parlavano, nei loro frequenti incontri, il trentino Palermo, il fiorentino (su Firenze lavorava Ciaccio Montalto) Vigna ed il nostro Falcone; o di più complessi commerci? E solo il fronte dei Padrini combatteva, in quella primavera ‘82, il Generale onesto, o più insospettabili potenti? Come che sia, il giudice Carlo Palermo è stato costretto - alla fine di dicembre; coincidenza eloquente di date - ad abbandonare l’inchiesta. Per la prima volta dalla caduta del fascismo, un capo di governo è intervenuto pubblicamente ed esplicitamente contro un magistrato penale nell’esercizio delle sue funzioni; ed è facile prevedere che se alla fine di tutta questa storia - storia da colonnelli, storia da Grecia o Argentina - a Trento ci sarà un imputato, sarà il giudice indiscreto; già relegato nelle pagine interne, già nei trafiletti inosservati. «Questo cervello deve smettere di funzionare». E l’ordine s’esegue, docilmente”.Si meritò così l’attenzione della mafia, che rispose con l’attentato di Pizzolungo, a cui il giudice Palermo scampò, ma in cui persero la vita accidentalmente una donna e i suoi due gemellini. In seguito il giudice accettò una proposta di lavoro dal ministero di Grazia e Giustizia, lasciando Trapani, tra i dubbi sollevati dai colleghi.
R.Orioles, Da Trento alla Sicilia, dalla Sicilia a Trento, I Siciliani, Febbraio 1984.
Un giorno qualcuno dovrà riscrivere la storia di questo trasferimento, del modo in cui il giudice Carlo Palermo è stato costretto ad accettare l’offerta del ministero, e di come in un tempo eccezionalmente breve tutto sia stato sistemato in modo da farlo partire». Salvatore Barresi, 34 anni, sostituto procuratore della Repubblica a Trapani, è un uomo minuto, nervoso e amareggiato.Su un altro fronte, il 6 agosto del 1985 venne ucciso a Palermo Ninni Cassarà, capo della Squadra Mobile:
M.Gambino, E tutt’intorno terra bruciata, I Siciliani settimanale, Novembre 1985
Ninni Cassarà, poco prima di essere ucciso, era stato a più riprese in Svizzera; per collaborare alle indagini della polizia elvetica su alcune ipotesi di riciclaggio di denaro sporco, ma anche per indagare sulle operazioni finanziarie effettuate in quel paese dal più potente degli imprenditori palermitani, Arturo Cassina. Un’inchiesta che andava avanti ormai da quattro mesi e della quale, negli ambienti imprenditoriali di Palermo, si cominciava cautamente a parlare. Se non altro perché nella categoria degli intoccabili palermitani Cassina è sempre stato, fino ad oggi, ai primissimi posti. […] Cassarà ricomincia da capo, individua i casi più delicati, ascolta tutti i pentiti, diventa il più stretto collaboratore del giudice Falcone. In tre anni memorizza migliaia di dati, nomi, fatti, circostanze: un archivio vivente. Un postulato gli premeva soprattutto capovolgere, il concetto di “contiguità”: politici corrotti e mafiosi su piani paralleli ma differenti. Più che di parallelismi, Cassarà preferiva parlare di convergenze, e su questa traccia lavorava da tempo, cercando conferme, prove reali, certezze probatorie; e i primi risultati - Nino e Ignazio Salvo in manette accusati di associazione a delinquere di stampo mafioso - erano arrivati.Nell’agosto del 1986 la Cassazione, tramite il giudice Corrado Carnevale, annulla gli ergastoli inflitti ai fratelli Greco per la strage di via Pipitone Federico a Palermo, quella in cui morirono Rocco Chinnici, il suo autista e il portiere dello stabile dove abitava il magistrato:
C.Fava, M.Gambino, Stava indagando sui soldi di Cassina, I Siciliani settimanale, Novembre 1985
Stiamo scrivendo avendo appena appresa la sentenza di Cassazione con la quale si è annullato il giudizio di condanna emesso dalla Corte d’Appello di Caltanissetta nei confronti dei notissimi boss mafiosi Michele e Salvatore Greco. Vorremmo esser prudenti ed amabilmente obiettivi, analizzare serenamente il caso, «attendere la motivazione», come si dice. Ma ci sono troppi morti di mezzo. Questa sentenza dichiara che essi sono morti per niente. «In nome del popolo italiano!». «I mafiosi in galera, finalmente!» avevano pensato i siciliani, dopo molti e molti anni di «insufficienza di prove». I giudici di Caltanissetta, dando l’ergastolo ai Greco - due dei mandanti dell’assassinio mafioso di Chinnici - avevano parlato esplicitamente di «terrorismo politico-mafioso». Perché è stato ammazzato Chinnici? Chinnici non stava indagando sui mafiosi di mezza tacca. Stava indagando sugli omicidi più direttamente politici (vale a dire presumibilmente voluti da politici), quello di Mattarella e quello di Pio La Torre. E stava alacremente lavorando - col suo braccio operativo Ninni Cassarà - all’incriminazione dei più potenti e politicizzati finanzieri di Palermo, i Salvo; e sul groviglio di affari, di miliardi da riciclare e di assassini da cui la classe dirigente palermitana ha tratto le proprie fortune - non solo a Palermo - con l’appoggio, infinite volte dimostrato, dei poteri occulti della P2 e di varie altre massonerie. Nessuno ha ricordato un altro particolare estremamente significativo: dei quattro cavalieri catanesi accusati da dalla Chiesa almeno i due principali avevano qualcosa a che fare con la P2: Graci coinvolto nell’affaire Sindona, Rendo segnato nell’agenda personale (e segreta) di Gelli. Arrestati da Carlo Palermo, i quattro sono stati improvvisamente scarcerati - il tre settembre, anniversario di dalla Chiesa... - dalla stessa sezione della Cassazione che ora ha salvato i Greco. Alcuni hanno sottolineato il fatto che il magistrato presidente della sezione, Carnevale, compaia nelle cronache sulla P2 come difensore di piduisti e come veloce estensore di sentenze soprendentemente favorevoli a un parente di Gelli (Marsili, un magistrato aretino finito sotto inchiesta). Coincidenze, probabilmente. Ma coincidenze su cui ci sarà da indagare.Troveranno spazio negli articoli de I Siciliani anche i risvolti dell’indagine sull’assassinio di Giuseppe Fava. Dopo il passaggio dell’inchiesta nelle mani di Di Natale, il magistrato protagonista del “Caso Catania” e sotto inchiesta dal CSM, forti erano stati i dubbi dei giornalisti sulla conduzione delle indagini. Infatti il procuratore aggiunto non disattese le aspettative, applicando per la prima volta la legge La Torre, con una serie di certosine indagini bancarie sulle vittime della mafia. Dal giornale si venne a sapere che erano stati spulciati tutti i conti della famiglia di Fava, oltre alle fatture e gli assegni della vita economica dei collaboratori de I Siciliani.
R.Orioles, A.Roccuzzo, E lo Stato gridò: forza mafia!, I Siciliani settimanale, 19 Giugno 1986
Le indagini dopo un anno erano ferme. Gli otto mesi dell’inchiesta gestita da Di Natale erano stati contraddistinti da ritardi ed eccessi di zelo che sembravano agli occhi dei giornalisti dei veri e propri depistaggi. La Criminalpol aveva convocato i colleghi che avevano visto per ultimi Pippo Fava in redazione: sotto l’interrogatorio del maresciallo Pellegrino, il giornalista Miki Gambino, in una parte non verbalizzata, era stato vittima di insinuazioni che avrebbero previsto un suo ruolo nell’omicidio del direttore [I Siciliani, Gennaio 1985]. Il contenuto non verbalizzato, ma appuntato dal giornalista, di quegli interrogatori, venne pubblicato sul mensile e inviato in una nota all’Alto commissario De Francesco.
Nel settembre del 1984 era accaduta un’altra cosa gravissima. Il quotidiano La Sicilia aveva pubblicato un articolo, firmato Enzo Asciolla, il cui titolo era “Un detenuto «pentito» della malavita catanese svelerà i nomi degli uccisori di Giuseppe Fava”; in quel servizio, il cronista spiegava che un pregiudicato catanese, Luciano Grasso, detenuto nel carcere di Belluno, aveva fatto sapere ai magistrati di avere delle rivelazioni da fare sull’assassinio mafioso di Pippo Fava. Una condotta scorretta quella del giornalista, che aveva dato questa notizia addirittura in anticipo rispetto al reale pentimento. avvenuto il giorno dopo, violando così il segreto istruttorio, e scrivendo, come se non bastasse, il nome del carcere che ospitava Grasso, la foto del “pentito” e l’indirizzo dei familiari. Per I Siciliani era stato un chiaro tentativo di intimidire Grasso che, la mattina del suo pentimento, aveva già ricevuto il quotidiano in cella. Eppure la missione del sostituto Torresi, giunto a Belluno per verbalizzare le parole di Grasso, era riservata; solo altri due giudici erano a conoscenza della missione, il procuratore aggiunto Di Natale e il procuratore generale Di Cataldo [C.Fava, la mafia comanda…, cit., p. 122].
Scrivevano a proposito i redattori:
E’ opinione diffusa e di chi scrive che la fuga di notizie dal palazzo di giustizia sia stata agevolata dal procuratore aggiunto Di Natale. Un comportamento che si ricollega perfettamente al modo in cui Di Natale per otto mesi ha ritardato, ostacolato o depistato le indagini sull’uccisione di Giuseppe Fava.Nel 1986 un altro articolo faceva il punto sulle indagini per l’omicidio mafioso di Giuseppe Fava. L’inchiesta però resterà ferma per svariati anni, ogni tanto smossa dalle deposizioni di alcuni pentiti, fino all’archiviazione nel 1991, in cui venne stabilito che non c’erano colpevoli. La riapertura dell’indagine avverrà nel 1994 e I Siciliani renderanno pubblici i risultati in quegli anni.
I Siciliani, Gennaio 1985.
martedì 8 dicembre 2009
La chiusura del giornale
I Siciliani cominciarono con il tempo a sentirsi più isolati. Le casse del giornale erano vuote da tempo. I debiti si accumulavano e nessuno accettava di comparire a scopo pubblicitario nelle pagine del mensile. Quando i redattori offrivano alle imprese la pubblicità nel loro giornale, tutti gli imprenditori rifiutavano, e neanche in maniera anonima finanziavano la rivista.
I riflettori dopo l’omicidio di Fava li avevano adesso abbandonati e anche le più grandi promesse di solidarietà non erano alla fine pienamente rispettate. Per questi motivi nel giro di un anno la rivista aveva cambiato volto: la foliazione era diminuita di trentadue pagine, era stato aumentato il prezzo della copertina per far fronte alle spese della carta, diminuito i costi di stampa e ogni tanto il giornale usciva bimestralmente. I Siciliani probabilmente era l’unico giornale europeo a larga diffusione che stava riuscendo a vivere senza introiti pubblicitari e con il solo ricavato delle vendite. Nel corso del 1985 i lettori erano stati tenuti al corrente di questi problemi finanziari, cercando di far crescere il numero gli abbonamenti. Nel numero doppio di Marzo/Aprile il giornale uscì con una foto dei componenti della redazione in copertina con il titolo: “Chi vuole chiudere questo giornale?”.
I Siciliani però non poteva chiudere, non poteva così far cessare quella voce che stava facendo saltare gli equilibri mafiosi in città. Soprattutto era l’unico giornale che cercava di contrastare il monopolio informativo di Ciancio che dimostrava sempre meno attenzione all’informazione antimafia. È datata infatti 19 marzo 1985 la pubblicazione di una lettera che Santapaola latitante spedì al giornale La Sicilia che non esitò a metterla in prima pagina. Un articolo che difendeva il colonnello Licata e che era stato pubblicato come se fosse stato un articolo di un corrispondente, senza commento alcuno.
Piuttosto I Siciliani volevano essere più presenti, più costanti. Per questo la scelta di cambiare la periodicità del giornale in settimanale dall’autunno del 1985. Il giornale soffrì degli stessi problemi finanziari del mensile, ovviamente amplificati. La condizione economica, dopo quasi un anno di settimanale, diventò ancora più insostenibile. Ciò portò I Siciliani alla chiusura nell’agosto del ‘86 quando salutarono i lettori con la speranza di rivedersi a settembre.
Nel gennaio del 1987 ricorreva il terzo anniversario in ricordo dell’assassinio di Fava. Circolava un volantino firmato dalla redazione, in cui si leggeva:
Già da sei mesi “I Siciliani” sono assenti dalle edicole e, com’è evidente, un giornale che non esce è già virtualmente un giornale morto. “I Siciliani” sono infatti sul punto di chiudere. […] La chiusura de “I Siciliani” sarebbe l’ultima di una lunga serie di sconfitte del movimento antimafioso sorto in Sicilia - soprattutto fra gli studenti, ma anche nel mondo del lavoro e in vari settori della società - all’indomani della morte del generale dalla Chiesa: un movimento che ha chiesto verità e giustizia contro la mafia e le sue connessioni politiche e finanziarie, che ha rivendicato i diritti più elementari calpestati dal sistema di potere mafioso, che ha cercato di riempire di contenuti positivi e civili la propria opposizione alla mafia e ai suoi potenti ispiratori. […] I redattori de “I Siciliani” hanno fatto quanto era in loro potere per scongiurare una simile eventualità, ma nessun giornale al mondo può sopravvivere indefinitamente senza adeguate risorse economiche e senza pubblicità. […] La chiusura de “I Siciliani” concluderebbe logicamente - se chiusura dovrà esserci - l’operazione iniziata la sera del 5 gennaio 1984, a Catania, con l’assassinio di Giuseppe Fava. Chiudere la bocca alla società civile siciliana, non far parlare nessuno su quanto di nefando e delittuoso, ma anche di positivo e civile, accade in Sicilia, abolire le voci della democrazia: il silenzio era l’obiettivo di quella sera. […] C’è stato un movimento, in questi anni, in Sicilia, per la prima volta dopo molti decenni: un movimento che partendo dalla mafia e dal potere mafioso ha messo in discussione, senza zavorra d’ideologie ma con coerenza profonda, gli assetti di società e di potere su cui si basano l’infelicità di quest’isola e i mali oscuri dell’intero Paese. Di questo movimento civile, indifferente al Palazzo ma profondamente radicato nella gente che vive fuori, “I Siciliani” sono stati una voce, e forse anzi la voce. Ora, non possono più esserlo da soli.Ad un certo punto, durante il 1986 e il 1987, ci furono delle possibilità concrete di riapertura: la redazione si era data da fare per trovare le condizioni ottimali per la ripresa del lavoro giornalistico. Sottoposero al PCI, al sindacato, alla Lega delle cooperative e alle associazioni culturali, un progetto di circa cinquecento milioni l’anno. Si impegnavano anche ad accettare un nuovo direttore, che potesse proseguire il sentiero tracciato da Fava dal 1983 e che godesse di garanzie professionali presso i finanziatori. Il giornale però non venne riaperto dopo estenuanti trattative. I partiti della sinistra siciliana che su quel giornale finivano per i loro intrallazzi, la lega delle cooperative che faceva affari con i cavalieri del lavoro, il partito comunista alla ricerca del gradimento dei potenti dell’isola, alla fine preferirono non accettare. Così mentre le cooperative nazionali accettavano di sostenere la propria quota, le cooperative siciliane respingevano il progetto.
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