lunedì 21 dicembre 2009

Il sogno fallito dell’industria in Sicilia

La Sicilia è stata fondamentalmente terra di latifondi, di contadini, di braccianti. Nel dopoguerra e negli anni del boom, la Sicilia ha però vissuto un “sogno”: l’industria.

Il bracciante sogna di diventare operaio, imparare il segreto di quelle macchine, avere un buon salario. Il padrone della terra sogna un giorno di essere il padrone di quelle macchine. Padroni e servi del Sud. Entrambi contadini ed entrambi storicamente vinti e nell’imminenza di un’altra sconfitta, sognano l’industria[…]”.
[Giuseppe Fava, Industria, il fallito sogno siciliano, n. 5 maggio 1983]
I Siciliani raccontò la nascita di questo sogno e la sua morte. In particolare fu condotta un’indagine sull’installazione dell’industria petrolchimica in Sicilia. Quattro grossi servizi, usciti nei numeri di gennaio, marzo, giugno e luglio, curati da Giuseppe Fava, Miki Gambino, Claudio Fava, Giovanna Quasimodo, analizzarono i retroscena della nascita dell’ASI, gli interessi dei gruppi petroliferi del Nord e dell’imprenditoria locale, le corruzioni politiche, le conseguenze da un punto di vista economico, sociale ed umano di quello che fu vissuto da molti come il sogno di emancipazione dalla terra, il passaporto per la modernità, la possibilità di un posto di lavoro, anch’esso faticoso certamente, ma molto meno pesante di quello agricolo e, soprattutto, sicuro.

La posizione del giornale fu netta: un atto di accusa che si sintetizza nelle parole ironiche e amare di G. Fava:
“Così la Sicilia divenne la prima potenza industriale petrolchimica del Mediterraneo. Soltanto quindicimila addetti su una popolazione di cinque milioni di abitanti. Ecologicamente un delitto. Politicamente un bluff. Storicamente una canagliata”
    Nei loro servizi i redattori de I Siciliani misero sotto accusa la miopia colpevole di questa scelta che considerarono non solo lontana dal tradizionale tessuto economico  siciliano e velleitaria per un territorio privo di infrastrutture, ma anche poco giustificabile all’interno della produzione petrolchimica nazionale ed europea:
“In realtà si sapeva che […] dieci quindici anni ancora e i paesi produttori petrolio[…] avrebbero costruito immense raffinerie accanto ai campi petroliferi e in quel momento avrebbero strangolato l’Europa. Forse anche i petrolieri italiani sapevano, ma pur solo per dieci o quindici anni, il polo petrolchimico siciliano permetteva egualmente favolosi guadagni”.
Denunciarono gli interessi degli industriali che “accorrevano dal Nord a cercare spazio e denaro pubblico per imprese che altrove non avrebbero potuto mai realizzare”, e l’avidità degli imprenditori e dei politici locali, le speculazioni e le corruzioni, le mazzette facili:
“Oltre due miliardi di lire con i quali i Cameli avrebbero oliato i meccanismi della burocrazia politica siciliana. La fetta più grossa sarebbe toccata alla segreteria nazionale della DC (un miliardo tondo), 65 milioni li avrebbe intascati invece l’on Gioia, più di ottanta la presidenza della regione, e così via: 26 i beneficiari indicati nel tabulato tra politici, funzionari, partiti, associazioni, fino alle ottocentomilalire, per “spese varie”. Stando a quella velina tutti avrebbero avuto la loro parte, anche i socialisti (100 milioni) anche il PCI (30 milioni), perfino il PSIUP che, con i trenta milioni ricevuti, starebbe a dimostrare come la corruzione sia un’arte ben più sofisticata della politica”.  
Filippo e Sebastiano Cameli,  armatori genovesi, nel 1967 acquistarono la concessione dell’Isab (Industria Siciliana di Asfalti e Bitumi) divenendone presidente e vicepresidente. La velina citata riporta le informazioni in possesso dei magistrati genovesi che allora indagavano sullo “scandalo petroli”, tratte da  un elenco del maggio 1971 rinvenuto nei libri mastri dell’Isab, in cui erano indicate tutte le “spese extra” che sarebbero state pagate dall’Isab per ottenere in tempi rapidi i nulla-osta necessari per costruire la raffineria di Melilli.
[Claudio Fava, Tecnica della corruzione al Sud, n. 3 marzo 1983]
In un lungo e articolato servizio di 16 pagine sul primo numero della rivista, Miki Gambino e Claudio Fava denunciarono l’inquinamento, la devastazione di trenta chilometri di costa  tra Augusta e Siracusa; raccontarono di un piccolo paese, Marina di Melilli, in provincia di Siracusa, raso al suolo per far posto alle industrie [Miki Gambino e  Claudio Fava,  Ed un giorno decisero: distruggiamo il paese, n. 1 gennaio 1983.]; raccontarono la storia di questo paese fantasma e di quelle quattro case rimaste in piedi per volontà dei proprietari che avevano deciso di non venderle allo Stato; denunciarono le malformazioni nei neonati, i decessi per tumori che erano aumentati insieme ai veleni delle raffinerie:
Le cifre che vennero fuori erano terrificanti: nel 1980,  83 aborti spontanei e 12 nati malformati su 814 parti; altri 5 malformati nei primi mesi dell’81. […]Ad Augusta nel 1950 i morti per cancro furono l’8% sul totale dei decessi; nel 1980 la percentuale era arrivata al 29,9% cioè quasi il doppio della media nazionale, che è del 16%.[…]  su cento malati di tumore, settanta sono di sesso maschile, quasi sempre operai nelle fabbriche della zona industriale”.
[Miki Gambino e Claudio Fava, E la città partorì i mostri, n.1 gennaio 1983]
Infine, nell’articolo Industria, sogno fallito del Sud, G. Fava  mise a nudo l’amara eredità di quel “sogno”:
“Tutto il grande sogno dell’industria siciliana finisce lì, in quelle cento, duecento  ciminiere metalliche che sprigionano fuochi velenosi, notte e giorno. Il territorio che cominciava a morire, il mare di piombo senza più pesci, gli esseri umani che cominciavano a morire cinque o sei anni prima di quanto il destino e la costituzione fisica potesse loro consentire. Tutto il resto fu velleitarismo, spreco di intelligenza, dilapidazione di migliaia di miliardi e di speranze”.
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