mercoledì 23 dicembre 2009

La giustizia

Un tema che occupò uno spazio notevole su I Siciliani fu quello della Giustizia. Tema vario che si intreccia con il già citato troncone tematico della mafia e dei suoi rapporti con la politica e il mondo economico-imprenditoriale.
In pochi anni, a Palermo e a Trapani erano stati uccisi sette magistrati. A Catania, nessuno. È la prova che qui non c’è mafia, ripeteva la stampa di città. La lettura di quel paradosso purtroppo era diversa. Molto più semplice e inquietante: la mafia, a Catania, non aveva mai avuto bisogno di uccidere un giudice”. 
[Claudio Fava, La mafia comanda a Catania]
Il Caso Catania
Alla fine del 1982 era scoppiato il “Caso Catania”. Il Consiglio superiore della magistratura aveva avviato una inchiesta sulle strane operazioni che avvenivano alla Procura di Catania: ritardi, omissioni, retrodatazioni a penna e insabbiamenti di alcune inchieste della Guardia di Finanza o di altre Procure che contestavano reati importanti all’imprenditoria catanese, principalmente nelle figure dei più volte citati cavalieri del lavoro. Era stato il prof. Giuseppe D’Urso, docente universitario e presidente della sezione siciliana dell’Inu (l’Istituto Nazionale di Urbanistica), ad inviare dei voluminosi dossier informativi al CSM. Il giornale durante il 1983 dedicò molto spazio alla vicenda, aggiornando mensilmente i lettori sugli sviluppi dell’inchiesta.
Erano il procuratore capo aggiunto Giulio Cesare Di Natale e il sostituto procuratore Aldo Grassi, i principali indiziati dell’“Affaire Catania”.
Mentre a Palazzo dei Marescialli la commissione del CSM interrogava Di Natale, a Catania il sostituto Procuratore D’Agata spediva 56 comunicazioni giudiziarie per altrettanti imprenditori e faccendieri siciliani coinvolti in un colossale giro di fatture false e di frodi fiscali. Probabilmente solo una pura coincidenza che tuttavia, data la situazione di emergenza, a qualcuno (forse agli stessi magistrati del Consiglio superiore) dovette apparire bizzarra. Santo cielo: il rapporto della Guardia di Finanza era stato lasciato in un cassetto, negli uffici della Procura, per molti mesi; e improvvisamente, mentre a Roma si sceglieva il capo della Procura catanese, questo fascicolo delle Fiamme Gialle tornava a galla e partivano 56 comunicazioni giudiziarie […]”
[Claudio Fava, La Procura di Catania può saltare in aria, I Siciliani, Febbraio 1983]
I fatti contestati ai due magistrati catanesi erano gravi: principalmente un caso di certificati di carichi pendenti retrodatati e la storia di inchieste inviate dalla Guardia di Finanza su noti politici e imprenditori alla Procura di Catania retrocesse ad “atti relativi”.
I fatti: in data 14 settembre 1982 la Procura di Agrigento trasmette alla Procura della Repubblica di Catania un’inchiesta che indica, come possibili responsabili per associazione per delinquere, numerosi e noti imprenditori economici. Si tratta della nota vicenda della truffa IVA per la quale nel mese di dicembre 1982 […] verranno emesse circa 100 comunicazioni giudiziarie. A seguito della trasmissione di questa inchiesta viene aperto un procedimento e in data 14 settembre 1982 nei cartellini personali degli interessati viene iscritto il procedimento a carico. Dal documento del consigliere Giovanni Martone presentato nel corso della seduta del 27 ottobre riportiamo testualmente: «A seguito di tale iscrizione e della conseguente pendenza di procedimento penale, un’originaria richiesta del 19 settembre 1982 di 20 copie di certificato di carichi pendenti relativi a un noto imprenditore (Carmelo Costanzo n.d.r.) è stata modificata con la precisazione della data (12 settembre 1982) finale del periodo al quale doveva riferirsi la certificazione. I relativi certificati (nonché altre 20 copie nei giorni successivi e altre copie ad altri operatori economici) sono stati rilasciati dopo una consultazione del Segretario capo con il dott. Aldo Grassi preventivamente informato che la richiesta riguardava “quelli del procedimento...”». Come noto per partecipare ad una gara d’appalto l’imprenditore non deve avere carichi pendenti. Da qui l’interesse degli imprenditori a non far risultare quei procedimenti pendenti. Una richiesta di certificati presentata in una data, sarebbe stata dunque (secondo l’accusa) retrodatata per evitare che quel procedimento aperto dalla Procura di Agrigento e trasmesso a Catania risultasse nei cartellini personali, e tutto ciò, secondo le risultanze dell’inchiesta della prima commissione disciplinare del CSM, sarebbe avvenuto nella conoscenza di un magistrato della Procura.”
[C.Fava , A.Roccuzzo, Giustizia è sfatta, I Siciliani, Novembre 1983]
Il rapporto della Finanza, con le sue incredibili ipotesi di reato, con il suo lungo, inquietante elenco di indiziati, rimase lettera morta negli uffici della Procura di Catania. Anzi (riferiamo sempre i termini delle denunce) accadde una cosa quasi grottesca: il dossier, nel quale si indicavano reati precisi sulla scorta di elementi probatori altrettanto inequivocabili, venne infilato nel cosiddetto fascicolo degli «Atti relativi». Il che, per un procedimento penale, equivale alla morte civile. Sotto tale voce, negli archivi giudiziari, vengono depositati i fascicoli che si riferiscono ad inchieste lunghe, generiche, non riferibili a ipotesi di reato precise (un’inchiesta, ad esempio, sulla prostituzione nella città di Palermo, oppure un’inchiesta sul contrabbando di sigarette nel golfo di Catania...). Inchieste che richiedono un’attività istruttoria lenta, meticolosa, dalla quale dovranno emergere - col tempo - i nomi degli indiziati e i reati ipotizzabili. Non era certo questo il caso del rapporto inviato ai magistrati catanesi dalla Finanza di Agrigento: la sua destinazione agli “Atti Relativi” fu una «retrocessione» immotivata (un insabbiamento in piena regola, suggeriscono spietatamente gli esposti spediti al CSM)”.
[C. Fava, La procura di Catania...]
L’uccisione del giudice Chinnici
Un giorno di febbraio il giudice istruttore di Palermo, Rocco Chinnici, si trova a Siracusa, per parlare di mafia con gli studenti. Il giornalista Lillo Venezia lo avvicina per intervistarlo, anche a proposito dell’omicidio di Giacomo Ciaccio Montalto, giudice trapanese, ferocemente ucciso nel gennaio del 1983:
Ecco, giudice, ma secondo lei che ogni giorno si ritrova dinnanzi questa forza oscura e crudele che sembra onnipossente nella nostra società, cos’è realmente la mafia?
«Potrei darle un semplice giudizio storico, e dirle che da 150 anni ci trasciniamo questo fenomeno mortale nato fondamentalmente dalla necessità di difendere comunque la proprietà, e dunque anche il privilegio, contro qualsiasi stravolgimento della società, dal banditismo, alle scorrerie dei briganti, alla miseria dei contadini che si trasformavano in predoni, alla stessa evoluzione della società. La mafia è stata sempre reazione, conservazione, difesa e quindi accumulazione della ricchezza. Prima era il feudo da difendere, ora sono i grandi appalti pubblici, i mercati più opulenti, i contrabbandi che percorrono il mondo e amministrano migliaia di miliardi. La mafia è dunque tragica, forsennata, crudele vocazione alla ricchezza.»
E in questa definizione, in questa immagine è possibile inserire l’ipotesi di un connubio costante fra mafia e politica?
«La mafia stessa è un modo di fare politica mediante la violenza, è fatale quindi che cerchi una complicità, un riscontro, una alleanza con la politica pura, cioè praticamente con il potere […] 
Ecco, torniamo alla legge La Torre. Lei ritiene veramente che essa abbia questa straordinaria validità che molti magistrati le attribuiscono?
«Senza dubbio! La legge antimafia recentemente approvata è certamente uno strumento di eccezionale validità, soprattutto se utilizzata con vigore, lucidità, intelligenza e implacabile decisione. Essa permette infatti l’uso di mezzi e strumenti che possono colpire il mafioso nel cuore stesso della sua attività: le indagini nelle banche, il controllo sugli appalti e sub-appalti.[…] Ma onestamente la sola legge La Torre non basta a contenere il fenomeno mafioso e aggredirlo in tutte le sue manifestazioni: abbiamo bisogno di mezzi che non siano soltanto giuridici, ma debbono essere anche strumenti concreti di lotta, intendo dire l’aumento dell’organico nelle varie sedi giudiziarie, l’aumento degli stessi organici di polizia giudiziaria attualmente insufficienti a far fronte alle necessità. Basti dire che gli organici giudiziari di Palermo sono gli stessi di quindici anni fa al cospetto di una criminalità organizzata che ha moltiplicato invece la sua potenza. Infine è necessario istituire la banca dei dati, ed è questa una drammatica necessità che abbiamo rappresentato anche al Capo dello Stato proprio in occasione dei funerali del povero Ciaccio Montalto. Oramai la mafia ha ramificazioni in tutta Italia, conseguenza di quella sciagurata politica del confino, che non solo non eliminava il mafioso dalla società, ma lo metteva in condizione di inquinare un territorio fin’allora sano della nazione. Spedire un mafioso in Toscana, o Piemonte, o Veneto e pensare che se ne stesse quieto a fare il bravo cittadino fu una illusione micidiale. Il mafioso resta tale in qualsiasi tempo e contrada e dovunque egli si trovi continuerà a esercitare la sua attività criminale. Se non ha alleanze, se le trova, se non ha complici li cerca. Inquina, ammala, contagia. Con l’istituto del confino abbiamo esportato la mafia in tutto il Paese e quindi esiste la necessità di uno strumento più moderno, appunto la banca dei dati, che metta in condizione di sapere istantaneamente chi sono i personaggi implicati nei vari delitti mafiosi e quali eventuali collegamenti possano esserci fra di loro [Lillo Venezia, La rivolta dei giudici siciliani, I Siciliani, Marzo 1983].
Il giudice Chinnici terminava la sua intervista con un messaggio chiaro alla mafia: “Noi giudici siciliani non ci arrenderemo mai. Non avremo mai rassegnazione o paura. Per ognuno che cade ce ne sono altri dieci disposti a proseguire con maggiore impegno, coraggio, determinazione”. E intanto Venezia lo incalzava, “riceve molte minacce di morte?”, e lui non rispondeva:
L’interlocutore sorride e per un attimo resta a guardarci con curiosità come se noi avessimo posto una domanda per scherzo. Sembra quasi voglia capire fin dove la nostra domanda possa essere ritenuta candida e non ci sia invece una punta di impercettibile sarcasmo. Continua a sorridere, però amabilmente. Fa uno strano gesto interrogativo a sua volta e risponde con una domanda: «Lei che ne pensa?».
Chinnici era considerato un giudice “galantuomo”. Aveva assunto il proprio incarico all’indomani di un’altra uccisione di mafia, quella di Cesare Terranova, ucciso nel 1979. Un lavoro di quattro anni quello di Chinnici, che chiedeva, come i predecessori, nuovi mezzi, altri uomini e strumenti legislativi più efficaci. Ma non era solo un giudice. La sua lotta alla mafia era anche culturale; accettava di buon grado di essere testimone sociale della sensibilizzazione, nelle assemblee delle scuole o ai dibattiti culturali antimafia.

La figura di Chinnici ricorrerà durante tutto l’anno 1983 negli articoli de I Siciliani. È l’anno dell’ennesima strage di mafia, in via Pipitone Federico a Palermo, dove una 126 verde, imbottita di tritolo aspetta sotto casa il giudice. Morirono insieme a lui due uomini della scorta e il portiere del palazzo, mentre rimasero ferite più di venti persone. Ci fu di nuovo un funerale di Stato e molte domande e sul ruolo del giudice Chinnici, un uomo lasciato solo anche da alcuni colleghi, secondo i diari ritrovati successivamente, e sulla banca dati sulla mafia da lui auspicata. Intanto un altro pezzo delle istituzioni dello Stato era scomparso.
Giuseppe Fava nel Settembre del 1983 scrisse un malinconico articolo, a tratti tragicamente ironico, sui funerali di Stato e sulla morte di un altro giudice attivo per la lotta alla mafia:
[…] Rocco Chinnici, assassinato in quel modo barbaro, coinvolgendo nella strage decine di vittime innocenti, persino bambini: una ferocia senza precedenti nella pur ferocissima storia mafiosa, poiché anche il giudice Rocco Chinnici doveva assolutamente morire, e doveva morire perché anch’egli stava per strappare il velo agli inviolabili santuari, identificare (ecco il punto) non soltanto coloro i quali eseguono gli assassinii, e coloro che ne sono i mandanti, i grandi strateghi degli affari mafiosi, ma soprattutto coloro i quali, da imperscrutabili cattedre politiche, finanziarie, forse anche governative, assicurano invulnerabilità.
Ecco: l’assassinio di Chinnici ha un significato che, per esemplare crudeltà, scavalca tutti gli altri delitti precedenti. Significa infatti: tu magistrato coraggioso e onesto, fai pure il tuo lavoro, arresta, imprigiona, condanna coloro che uccidono, avvelenano il mondo con la droga, guadagnano migliaia di miliardi e, se ne sei capace, anche coloro che li comandano, i mandanti, gli strateghi, ma non andare al di là di un passo, non cercare di capire e conoscere coloro i quali li proteggono ed assicurano loro inviolabile potenza. Non un passo di più! C’è un funerale di Stato pronto per te!
[Giuseppe Fava, Funerali di Stato, avanti c’è posto!, I Siciliani, Settembre 1983]
Quei funerali di Stato ormai si somigliavano tutti: arrivava Pertini “trascinato a Palermo, sempre più vecchio, sempre più vecchio, sempre più stravolto”, poi “la rovente omelia di Pappalardo” e la gente comune “che piange e applaude quelle misere bare con le quali uomini coraggiosi scompaiono”. Al funerale di Chinnici prendeva posto anche il presidente del Consiglio Amintore Fanfani, a cui si era rivolto il sindaco Pasquale Almerico prima di essere trucidato.
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